“Se questo è un uomo” in teatro
Se questo è un uomo più che un romanzo, rappresenta una testimonianza intensa e toccante dell’esperienza dell’autore, sopravvissuto alla deportazione, Primo Levi, nel campo di concentramento di Auschwitz, un romanzo assolutamente autobiografico, scritto tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947. Sui motivi della sua genesi è lo stesso Levi ad affermare che tale romanzo «è nato per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi», così da spiegare in qualche modo quello che realmente accadeva nei lager nazisti.
E’ proprio da queste due motivazioni che Luca Fusi parte per l’allestimento del suo spettacolo, trasformando l’opera di Levi in una rappresentazione teatrale catartica, di forte impatto emotivo, rispettando però l’approccio razionale, quasi freddo, di Primo Levi, dettato probabilmente dal suo mestiere di chimico. D’altro canto lo stesso Fusi ci dice: ”Io e Luca (Rampini ndr) siamo fra gli ultimi a cui i nonni raccontavano questo storia in diretta. Quindi, un buono strumento per conservare questo storia poteva essere il teatro […] Si può pensare che il nostro narratore sia Primo Levi oppure no, ma chiunque potrà condividere i temi e le parole…”.
La rappresentazione inizia ancor prima che lo spettacolo entri nel vivo: il pubblico è infatti accolto dai cosiddetti “fantasmi” (interpretati dai ragazzi della Scuola di Teatro Arsenale), ossia deportati di grigio e beige vestiti, che camminano per la piccola sala del Teatro Arsenale fissando il vuoto e che contribuiscono a creare nello spettatore lo stato d’animo giusto per l’inizio imminente dello spettacolo. Alle 21.15 in punto Luca Fusi entra in scena e inizia il concitato racconto della “sua” deportazione, dalla cattura alla liberazione, coadiuvato e intervallato dalle musiche di Luca Rampini e da un coro composto da undici “fantasmi”.
Nel racconto Levi (Fusi), a causa della sua esperienza di prigionia ad Auschwitz compresa fra due rigidi inverni nord europei, si trova dinanzi alla perfetta e razionale macchina di distruzione di massa rappresentata dai lager nazisti. Inserito dentro questo folle progetto, l’uomo non riesce più a provare pietà, non è sensibile più all’amicizia e alla ribellione, ma prevale invece in lui l’istinto di auto-conservazione: il prigioniero si cura solo di non morire e per questo lotta con tutte le forze per mantenere in piedi quello scarno corpo ridotto a scheletro, confidando che quello che accade intorno a lui non possa un giorno riguardarlo in prima persona. Si tratta di un racconto concitato in cui le uniche “certezze” temporali sono date dal momento della cattura e da quello dell’inizio dei bombardamenti intorno al campo di concentramento.
Nel mezzo il tempo esplode e perde il senso, le immagini evocate si accavallano, i “fantasmi” danno voce e corpo al racconto, facendo da coro e creando un effetto sonoro coinvolgente: tutto per capire l’esperienza di chi ha vissuto quei terribili momenti, in cui la dignità umana era calpestata in modo razionale e sistematico.
Il diario finisce col giorno della liberazione e con i russi che arrivano e scoprono il campo e i suoi orrori. Orrori che vengono rappresentati in coda dello spettacolo tramite alcune diapositive di foto realmente scattate nei campi di sterminio.
Dal punto di vista tecnico, la messa in scena è sobria ed essenziale, cosa che consente allo spettatore di non distrarsi e concentrarsi sul racconto di un bravo e coinvolgente Fusi. Il pianoforte di Luca Rampini accompagna poi con dosata fedeltà e senza essere invasivo il percorso narrativo, a volte interagendo direttamente con le parole, a volte creando momenti di pausa fra un testo e l’altro. Gli undici fantasmi completano in modo perfetto la rappresentazione, infatti grazie al loro vociare e muoversi per la sala garantiscono dinamicità allo spettacolo.
Lo spettatore non può rimanere indifferente allo spettacolo a cui assiste: il coinvolgimento emotivo è inevitabile in una storia in cui, è il caso di dirlo, la realtà dei fatti supera la più perversa fantasia e che racconta la distruzione della dignità umana ma, nel contempo, anche l’ incredibile forza d’animo di chi è riuscito a sopravvivere.
Insomma, in ultima analisi, questa trasposizione rappresenta la degna appendice di quello che il libro è stato e continua ad essere: una memoria di tutto quello che non vorremmo capitasse più, ma che purtroppo, in troppe parti del mondo, continua a succedere.
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