Giusto la fine del mondo, quando comunicare è impossibile
“Giusto la fine del mondo” è la storia autobiografica di Jean-Luc Lagarce, uno dei drammaturghi francesi più rappresentati di sempre nonostante la morte prematura. È proprio sulla malattia che lo strappò alla vita neanche quarantenne che ruota lo spettacolo di Francesco Frangipane che ha debuttato al teatro Piccolo Eliseo giovedì 13 febbraio. Il regista calabrese porta avanti il suo teatro fatto di interni soffusi, di tavole apparecchiate e di conflitti familiari, ma lo trasla su un livello diverso affidandosi a un autore unico nel suo genere, molto più concentrato sullo stile che sulla mera drammaturgia.
A differenza delle opere precedenti di Frangipane, non bisogna dunque aspettarsi una narrazione fortemente realistica e un intreccio complesso e ricco di colpi di scena. “Giusto la fine del mondo” è uno spettacolo denso, carico di parole, ma che al dialogo preferisce il monologo, forzandolo anche fuori contesto, con personaggi logorroici molto più propensi a perdersi nelle proprie elucubrazioni che ad ascoltare il proprio interlocutore.
La trama è esilissima: un trentaquattrenne con i giorni contati decide di tornare a casa dalla propria famiglia per informarli della propria malattia, ma si scontra contro un muro di rancore represso e, soprattutto, di incomunicabilità. Nulla di più, giusto la fine del mondo. Almeno per il protagonista, interpretato da un credibilissimo Alessandro Tedeschi, capace di incarnare un giovane uomo allo stremo della sua esistenza, in bilico tra fragilità ed egoismo.
Al suo fianco un cast scelto con la solita cura da Frangipane, che della minuziosa direzione degli attori fa il suo marchio di fabbrica. Giusto il tempo di oliare una macchina appena avviata e tutti gli attori hanno dimostrato di trovarsi perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli. In particolare la “madre” Anna Bonaiuto che ha messo in gioco tutto il suo carisma e la sua esperienza per interpretare un personaggio che sembra nel suo repertorio da sempre. In un testo in cui la penna dell’autore si sente maggiormente rispetto al carattere dei personaggi, imponendo il suo stile fatto di ripetizioni, verbosità, inciampi e continue auto-correzioni, gli attori riescono a incarnare con efficacia diversi aspetti della medesima incomunicabilità. Nonostante parlino tutti allo stesso modo insomma, si percepiscono chiaramente cinque diverse voci. Cinque personaggi che riempiono l’aria di parole vuote, che rimbalzano e tornano indietro totalmente disinnescate dalla incapacità altrui di comprenderle.
Ciliegina sulla torta una regia che riesce a trasformare una semplice casa in uno spazio dinamico, sfruttando sapienti scelte d’illuminazione e pochi artifici di scenografia, come delle veneziane che, alzandosi e abbassandosi, cambiano la scena tutt’intorno: separano, accolgono, fanno intravedere la luce o la rifrangono diventando uno schermo su cui proiettare immagini sbiadite. E, in fondo, la verità più profonda di questo spettacolo è fatta un po’ come una veneziana, da cui si può spiare verso gli altri, dietro cui ci si può nascondere o che si può spalcare per mostrare all’esterno la propria immagine, all’apparenza integra ma in realtà frastagliata e imperfetta. Perché per quanto si possa essere vicini, c’è sempre quel filtro quasi invisibile che ci separa, rendendo il contatto autentico semplicemente impossibile.
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