I discorsi alla Nazione di Ascanio Celestini
“Secondo il diritto consuetudinario, in un villaggio c’è il risvegliatore che sveglia tutti e solo gli abitanti che non si svegliano da sé. Si domanda chi sveglia il risvegliatore. Non lui stesso, perché lui sveglia solo gli altri, non un altro, perché l’unico che può svegliare altri è lui stesso”. Così recita il paradosso del risvegliatore e così, in un certo senso, Ascanio Celestini apre il proprio spettacolo Discorsi alla nazione al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma il 28 marzo.
“Sale sul palco, a luci ancora accese, e comincia a parlare al pubblico, con tono informale. Spiega che cosa accadrà a breve, di cosa parlerà, perché “tra poco comincia lo spettacolo”, ma la verità è che è già iniziato da circa 20 minuti, mentre ancora molti stanno prendendo posto, mentre tanti chiacchierano in attesa del segnale che, per convenzione, decreta l’apparizione dell’invisibile quarta parete che separa attori e pubblico: lo spegnimento delle luci in sala.
In pochi si sono accorti delle voci registrate che si sono mescolate al brusio, quelle di Ceaușescu, Mussolini, Hitler, Mao, Kennedy, Berlusconi (tra gli altri), di quei discorsi alla nazione già noti e sentiti che riecheggiano in sala e nella nostra memoria. Ascanio è lì, davanti al pubblico, e non sembra ancora entrato nella parte mentre ripete “Io sono di sinistra, però…”, un mantra che fa sorridere mentre fa emergere i cliché che hanno trasformato la sinistra (o presunta tale) da libertaria a liberista. Lo spettacolo è iniziato, eccome, e la scena è solo un paradosso che riflette le nostre immagini.
In un’ipotetica nazione dove si combatte una guerra civile non ancora dichiarata, non fa altro che piovere. Non smette mai. Nessuno parla della guerra, ma solo della pioggia. C’è chi ha l’ombrello, ma lo dimentica ed è costretto a comprarlo da un “negro” al semaforo, chi sta alla finestra e “spara senza pregiudizi” su chiunque si posi il suo sguardo, chi vede un uomo senza ombrello sotto la pioggia e gli offre riparo sotto ai suoi piedi, dove potrebbe godere anche di qualche briciola di pane o di qualche cicca di sigaretta, chi ha una rivoltella in tasca, un’arma potenziale non usata, che riduce tutti a bersagli mobili rendendo l’esistenza sopportabile.
Tutti personaggi, uomini, diversi tra loro, sistemati in vari piani di un palazzo che è sublimazione dell’appartenenza sociale, di un’etichetta condivisa dalla società e che volentieri si portano addosso. Diversi, sì, ma con un tratto comune: il linguaggio. La violenza, nella sua prima manifestazione, è parola. Uno strumento malleabile, capace di mutare fino a giustificare la più becera brutalità. Un vero e proprio virus dal quale nessuno è immune e che si manifesta (anche) in una scivolosa congiunzione avversativa che introduce timidamente un’obiezione: “Io sono di sinistra, però…”, “Io sostengo la tua causa, però…”, e così via.
La costruzione di questa sintassi è la rappresentazione della possibilità della violenza, prima ancora della sua reale concretizzazione, una procedura conscia o inconscia che passa attraverso la comunicazione amplificata (anche letteralmente) e che può sconvolgere le idee apparentemente più radicate. La stessa che vediamo comporsi, in un perfetto parallelismo tra parole e immagini, sul palco, grazie a una struttura che il tiranno/Ascanio sta pian piano montando. Un piedistallo, un balcone, un pulpito dal quale la voce diventa arma capace di annullare la differenza tra tirannia e democrazia. “Lasciate che vi chiami cittadini, anche se tutti sappiamo che siete sudditi, ma io vi chiamerò cittadini per risparmiarvi un’inutile umiliazione”. Bastone e carota. Il nuovo tiranno ha preso la parola. L’ha fatta sua, è il suo strumento di violenza contro chi la subisce e non può usarla a sua difesa. La platea ascolta, silenziosa, subito prima che il paradosso si chiuda, in modo circolare, con un lungo applauso.
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Valentina Mallamaci