Il Macro apre le porte a Steve Mc Curry
[ARTI VISIVE]
ROMA- Dal 3 dicembre 2011 la Pelanda del Macro di Testaccio ospita la mostra del noto fotografo americano Steve Mc Curry, un evento a cura di Fabio Novembre, promosso da Roma Capitale, dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico, dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali e Civita.
La mostra, che è possibile visitare fino al 29 aprile 2012, dove tra l’altro sono presenti 4 fotografie realizzate dallo stesso artista nell’ambito del progetto ¡Tierra! ideato da Lavazza, è un percorso fotografico che racconta le esperienze di Mc Curry, i suoi viaggi, la sua voglia di narrare persone, fatti e luoghi attraverso il suo obiettivo, pronto a immortalare attimi che diventano delle vere e proprie opere d’arte.
Nato nel Febbraio 1950 in Pennsylvania, Steve Mc Curry, dopo aver compiuto i suoi studi in fotografia e cinema, ottiene una laurea in Teatro nel 1974, per poi dedicarsi alla fotografia in qualità di fotoreporter per alcune testate giornalistiche locali. Proprio questa attività lo porta a viaggiare in giro per il mondo, venendo a contatto con realtà ben diverse, come la prima esperienza in India, a cui fece seguito il viaggio nei territori tra Pakistan e Afghanistan durante l’invasione russa nel 1979.
Durante questo viaggio Steve Mc Curry va in giro con la sua macchina fotografica e riesce a raccogliere una infinità di immagini spettacolari, che gli consentiranno di aggiudicarsi la Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, il primo di una lunga serie di riconoscimenti che lo renderanno famoso e apprezzato in tutto il mondo.
E noi siamo andati a spulciare le sue fotografie, fino in fondo, raccolte nello spazio allestito dal Macro, dove ci siamo deliziati con immagini colme di espressività, volti di donne e uomini che nella loro incredibile realtà ci guardano negli occhi, ci cercano e allo stesso tempo si prendono gioco di noi.
Molti giornali hanno parlato della famosa fotografia Ragazza afgana, un’immagine scattata da Mc Curry presso un campo profughi durante una lezione per studentesse, dove al centro dell’immagine c’è una ragazzina dagli occhi verdi, che il fotografo torna a cercare circa venti anni dopo per fotografarla di nuovo.
Tutto il mondo oramai conosce questa immagine, tra l’altro immagine simbolo di Amnesty International per molto tempo, e la storia che l’accompagna, eppure sono stata personalmente colpita da altre fotografie, altre immagini, come quelle in cui predominano ampi spazi aperti e urbani, dove la presenza umana è quasi assente, o forse sopita dietro l’architettura creata dagli uomini, come i colorati templi indiani che contrastano con la grigia sobrietà delle chiese occidentali, dove fedeli devoti celebrano riti religiosi portando in giro la statua del santo di turno o incappucciandosi.
Se i volti ci raccontano la bellezza e la sofferenza, i luoghi sono porte aperte che incutono curiosità e aprendole delicatamente ci si addentra in un universo simbolico che si sottrae ad ogni razionalità.
Potrei stare qui a raccontare altre immagini, ad ubriacarvi di parole meravigliose e metafore copiose solo per descrivervi quello che ho visto, ma nessuna metafora, nessuna parola spesa in più potrebbe inebriarvi come le stesse immagini.
Eva Di Tullio
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