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C. Armati, D. F. Morgante, Shepard Fairey, Obey A Private Collection

Obey_Libro

Obey_LibroMondo Bizzarro Gallery è stata la prima galleria italiana a presentare una raccolta di serigrafie in edizione limitata di Shepard Fairey, meglio noto al pubblico con lo pseudonimo di Obey. La mostra A Private Collection, tenutasi a Roma dal 29 gennaio al 23 febbraio 2011 è spiegata e raccolta da Cristiano Armati e Dario Morgante nel catalogo omonimo alla mostra.

I due curatori hanno presentato le opere, che sono state appese sui muri di mezzo mondo, in un catalogo d’arte che spiega l’artista e il suo modo di produrre arte.
Armati e Morgante, della stessa generazione dell’artista di Charleston, South Carolina, hanno individuato in Obey un produttore d’arte e di comunicazione diretta; lo scopo, prima della mostra e poi del catalogo in vendita, è quello di un riconoscimento italiano al writer che ha ripescato vecchi simboli e li ha trasformati in una comunicazione nuova.
Le oltre sessanta serigrafie in edizione limitata, presentate in occasione della mostra, hanno raccontato al pubblico italiano un modo di fare arte diretto e comunicativo. L’artista che, dagli stickers iniziali della sua produzione, è passato ai murales alti settanta metri per poi trovare spazio in luoghi istituzionali come il New Museum of Design di New York, il Museum of Contemporary Art di San Diego e il Victoria & Albert Museum di Londra, è ovviamente identificato come un artista controverso sia per la critica che per un pubblico giovane vicino a questo genere di arte.

Dopo la mostra presso la Mondo Bizzarro Gallery di Roma, Obey ha nuovamente suscitato le polemiche venendone fuori Obey_Libro2con un pugno nero e un murales rovinato più volte. In occasione della mostra presso la V1 Gallery di Copenaghen, Obey ha promosso la sua personale come sa fare lui: invadendo la città delle sue immagini. Gli spazi, secondo sue dichiarazioni, non gli sono stati assegnati dal comune della città e le indicazioni dei galleristi della V1 rispetto a dove meglio collocare i suoi enormi poster, forse non sono state opportune o magari lo erano proprio per creare polemica. La parete della Casa della Gioventù svuotata nel 2007 dai giovani occupanti non è diventata quel luogo di pace che Obey avrebbe voluto rappresentare con la colomba che volava su fondo rosso, la colomba della pace ha avuto le ali tarpate da un chiaro invito: “Yankee go home!”.
Polemiche che sono proseguite anche in occasione del vernissage di Your ad Here, che ha raccolto centodieci opere dal 6 agosto al 3 settembre del 2011. Anche in questa mostra Obey è riuscito a trasformare la polemica finale e addirittura quella iniziale in un ulteriore fenomeno mediatico. Your Ad Here è ciò che scrive un altro writer, Skewville sui suoi stencil che riprendono il volto di Giant, il famoso ex wrestler professionista André The Giant che dal 1989 è il simbolo di Obey. Quindi come meglio sfruttare la polemica di un suo antagonista? Utilizzandolo per promuovere se stesso!
Armati e Morgante avevano spiegato e individuato la capacità di questo artista di commercializzarsi e di rendere fattibile una critica sociale perché la resa di Fairey è immediata e riconoscibile.
L’indagine di questo artista è di natura sociale, il cromatismo ricorda il realismo socialista di inizio secolo, e il richiamo, non è casuale, all’arte di questo periodo a cui fu affidato il compito di compiere una trasformazione politica, con immagini chiare semplici che dovevano avere un ruolo propagandistico con chiari riferimenti evocativi. Il realismo socialista richiama anche la pop art, e Obey racchiude questi segmenti artistici e li trasforma secondo le esigenze del contemporaneo.

Politicamente impegnato e socialmente attivo, Obey trasforma se stesso in un fenomeno mediatico e sociale, facendo diventare la sua stessa figura un fenomeno di consumo. La sua produzione artistica nasce e si sviluppa negli anni del guerrilla marketing e, usando la formazione artistica e la capacità di provocazione, Obey trasforma i suoi poster in punti interrogativi e in dichiarazioni sociali. Denuncia la politica di Bush e appoggia la candidatura di Obama, famoso il suo poster Hope, in cui l’immagine del futuro presidente americano diventa un simbolo, un’icona, operazione che, secondo le stesse dichiarazioni dell’artista, ha comportato solo una spesa personale, una causa con l’Associated Press per aver utilizzato indebitamente una loro foto e una lettera di ringraziamento di Obama a elezioni avvenute.
In un’intervista di Tea Romanello su undo.net, Obey spiegava: “Ho creato il progetto Obey per costringere le persone a confrontarsi con se stesse”.
Per questo l’artista cerca immagini e forme comunicative facilmente riconoscibili, e per questo motivo Lincoln Cushing, studioso di street art e di storia della comunicazione attraverso la propaganda, accusa Obey di aver usato simboli in modo assolutamente inconsapevole e soprattutto senza rendere merito ai proprietari delle stesse immagini.
Lo scopo di Obey è quello di destrutturare una precedente comunicazione come faceva Duchamp e l’arte pop statunitense, confronto che Cushing non accetta perché in questa c’era un dichiarato riferimento ai simboli ed esisteva la consapevolezza di quest’uso oltre a una voluta enunciazione, mentre Obey si è trovato a usare dei simboli ed essersi scusato per lo stesso utilizzo, non avendo individuato chiaramente l’origine di questi.

Obey_Libro3Sempre nell’intervista di Tea Romanello, Obey chiarisce l’uso dei segni riconoscibili nella sua produzione: “Quello che mi interessa è la reazione che la gente ha di fronte ai simboli. E quello che cerco di fare nel mio lavoro è proprio di desensibilizzare la gente nei confronti dei simboli i quali hanno ormai assunto un’infinità di significati”. Quegli stessi significati usati e riusati in modo diverso arrivano a lui in un modo specifico e la sua interpretazione parte dal suo personale approccio a questi, esattamente come accade a chi si trova di fronte al simbolo che lui ha rotto e ricomposto in vario modo.
Nel catalogo A private Collection, una citazione di Obey spiega ulteriormente la sua volontà di fare arte usando certe tipologie. “Per me la street art è sempre stata un modo, non avendo soldi, di fare la differenza e dare spazio alla propria voce”. Ovviamente questa voce ha un suo retroterra culturale, ha un modo di recepire e accogliere le immagini e i segni che poi l’artista decontestualizza ulteriormente. Il dubbio è se l’importante sia solo far parlare di sé piuttosto che dell’arte prodotta.
I più grandi artisti hanno dovuto e voluto far parlare della propria persona oltre che della propria produzione e hanno voluto, soprattutto in epoca moderna trasformarsi in un marchio, perché il marchio è il simbolo dei nostri giorni e un artista è un uomo dei tempi che vive.
Armati e Morgante hanno voluto portare questo progetto artistico riconosciuto e discusso a un pubblico italiano che ancora si rapporta in modo diffidente alla street art, la mostra romana e la pubblicazione del catalogo è diventato solo un punto di partenza, le stampe di Obey sono diventate oggetto di culto per un giovane pubblico che, per rappresentarsi di fronte al mondo, passa dalla maglietta con una grafica accattivante, ma riconoscibile, a una serigrafia in edizione limitata.
Tra denuncie e pugni neri, Obey e la generazione dei writers sono in contrasto diretto con l’autorità che, però cercano un’identificazione in spazi istituzionalizzati, e vivono le loro contraddizioni in pieno riconoscimento dell’epoca attuale.
Forme e iconografie usate per spiegare i tempi nuovi, il rosso, il nero e l’ocra sono direttamente il linguaggio della grafica accolto in questo catalogo curato cromaticamente con grande perizia e che illustra diversi aspetti della vita e della carriera di questo artista, che, nonostante la sua critica sociale, volente o nolente, rappresenta una società dell’apparenza e del consumo.

Cristiano Armati e Dario F. Morgante, Shepard Fairey Obey A Private Collection, Mondo Bizzarro Edizioni, pag. 64, 19

Rossana Calbi

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