La cornucopia, le staffette, l’optimum, l’helzapoppin’
[IL_7 SU…]
Cecilia Amici, malgrado le sconfortanti statistiche sull’aumento della criminalità giovanile, non è una can-tautrice la cui reputazione venga protetta dal branco, ma piuttosto un’artista che quando si offre al pubblico sembra sempre che si trovi tra amici, non intesi necessariamente come suoi parenti, visto il nome che porta, ma piuttosto come persone che si sentono in consonanza con la sua musica.
E sono moltissime, dato che lei, per le sue antiche origini mediorientali, ama mettere in comunicazione mondi, cantando in tre lingue, italiano, inglese e arabo (vedi sul myspace, il brano “Complete live” un indie-pop assolutamente orientaleg-giante), sia come voce solista degli Handala, gruppo italo-palestinese, sia da sola, quando, una volta di più, ascolta sé stessa trovandovi echi olistici che la conducono anche talvolta a far risuonare armonie celtiche, memore forse della “lezione” di Kate Bush, citata tra le sue influenze. In “Guardo fuori”, il giro di basso con l’intervento successivo della chitarra delineano un clima piuttosto dark-ipnotico su cui la delicata fragilità della voce dell’interprete inganna il tempo e la pioggia fuori dalla vetrata con strofe in saliscendi che espri-mono una quieta determinazione ad assecondare il ritmo della propria vita spalmando marmellata quando il suo lui – come si sente nel ritornello – non c’è, come sempre la domenica, ed i dettagli sembrano gonfiarsi mentre lei che sembra ferma e invece, anche se come una lumaca, va avanti perché un raggio di sole c’è e tutto brilla, con queste tonalità e la dolcezza cristallina del mood new wave maturo ma soffice, condito da uno splendido assolo di chitarra solista, finalmente della lunghezza giusta per effondere sia la tecnica che i nodi gordiani del sentimento, perché il lui assente può ancora farcela, a conquistarla, tutto può ancora succedere dentro lei, mentre guarda fuori, da sola. “Nero all’orizzonte” inizia come un esercizio di stile per la vocalist, occasione per far risuonare nel vuoto strumentale il suo timbro incantato, poi l’arrangiamento gua-dagna spazio e produce un sostrato ruvido all’imperturbabilità del canto, che tutto contempla senza compromettere mai la bellezza, (“Sarò forte, vedrai, nulla mi fa tremare”) ma mai dare nulla per scontato, ed infatti l’onda chitarristica opaca è un indie fosco che risciacqua e cancella i pensieri: “Una donna vestita di nero invoca la tempesta imminente! In un attimo non ti vedo più…” Sia il ritornello, sia il finale con lo squarcio di luce sono ampi e liberatori, con le note del canto che si prolungano come braccia tese a rag-giungere Lui, ma nei momenti dell’incertezza esistenziale i gorgheggi sagomati di Cecilia Amici sono prove di forza con le parole del testo, prove vinte grazie ad un’emotività suadente. “Vento” si confronta con la forza naturale degli spostamenti d’aria ancora da una prospettiva molto intimista, solo una tastiera madreperlacea si stende sotto i pensieri dell’autrice, i cui tormenti sono accesi come fuoco da quel soffio gelido, e quando un filo di percussioni siu aggiunge all’etereo impasto, la vocalist si rivolge alla Terra a cui appartiene, “carne e sangue e sono viva”, in più porta una luce che è quella della sua voce, e dà la vita come l’acqua, che scor-re come la sua musica, e come le lucide lastre che la tastiera proietta sull’orizzonte, tesa ed espressiva di-vagazione strumentale di sapore prog che a noi che siamo di parte non possiamo che gradire! “Cornucopia” a noi personalmente ricorda le inattese mancanze di un’anima ingenua e intelligente, ma in realtà è un’altra composizione rock fluida che nasce con un arpeggio scampanellato tremulo su cui la voce della Amici si appoggia con la con-sueta grazia, finchè si propone di trasformare la sua realtà, e allora la chitarra si irrigidisce in un pattern su cui le frasi si susseguono più serrate, per poi dispiegarsi in una lunga prospettiva d’ampio respiro, abitata dai vocalizzi aerei di Cecilia, fiduciosi che “la fortuna ti bacerà”, e l’assolo conclusivo, di stampo alternative, è il degno suggello sonoro al pezzo sul mitologico corno dell’abbondanza, l’inverso del vaso di Pandora… L’espressività di Cecilia Amici, carica di tutte le sue esperienze precedenti in varie discipline artistiche, si diffonde come un abbraccio empatico imperniato su una vocalità pura e su una musicalità incline alle melodie riflessive della new wave, aperte al sogno dolce-amaro e alle sinusoidi dell’immaginazione, ma risente anche di una certa attualizzazione in chiave alternative che va anch’essa ad integrarsi con le sue qualità interpretative.
EtruSkaJazz è un progetto che con delle sonorità impreviste, sembra teso se non a consolare, perlomeno ad incentivare l’orgoglio etnico di chi ha il profilo etrusco, tirando altresì su il morale di alcuni tombaroli to-scani in pensione grazie a colori che appartengono alla tradizione reaggae ma che mantenendo una visione positiva delle cose, possono tingere anche il cool-jazz, se non se la prende a male, e perfino l’esuberanza su di giri e nervosetta dello ska. Dopo il via dato dal basso, il sax dissimula la malinconia con frasi disinvolte, in “Song for my father”, ottenendo la comprensione giocosa delle percussioni e la complice punteggiatura di un piano quanto mai dinamico, che si offre a danze creole commemorative forse dell’antica prosperità delle città etrusche di Cerveteri e Tarquinia (!?). Volendo poi interpretare l’improvvisazione, cuore del jazz, anzi il jamming di Bob Marley, come corrispettivo musicale non violento e sognante del jamming come sabotaggio culturale situazionista e intervento di disturbo verso la pubblicità ed i media schiavi delle grandi corporations, viene da pensare che queste contaminazioni e osmosi culturali non sono solo una strategia linguistica utile per entusiasmare il pubblico, come fanno gli EtruSkaJazz con le loro rivisitazioni di caldi standard jazz meticciati con l’allegria di norma un po’ ciondolona, ma anche saltellante, dei ritmi giamaicani, ma rappre-sentano anche una contestazione luminosa e costruttiva nei confronti di tutto ciò di bieco che rovina l’am-biente naturale e le esistenze; in questo senso non sorprende che il quintetto abbia collaborato anche con l’associazione “Il Mitreo”, che si occupa anche di musicoterapia. Nato nel 2009 dalle aspirazioni del batte-rista e del contrabbassista, il gruppo ha iniziato a trovare la sua definizione nel momento in cui ha inglo-bato un chitarrista e pianista studenti di jazz. Quando l’en-tusiasmo dei quattro ha contagiato anche tre musi-cisti che sono andati a comporre la sezione fiati, cioè solo nel 2010, l’ensamble si è sentito pronto per brani che, anche se dal punto di vista della grammatica musicale sono basati sul “levare”, l’afterbeat, essenziale per produrre la caratteristica sincope giamaicana, tuttavia proprio per questo, soprattutto “aggiungono” alle no-stre esperienze atmosfere esotiche per queste latitudini, come quelle del jazz afro-cubano, jump blues e big band swing, tutte influenze presenti nello ska delle origini e da tempo diventate segno di un benessere psi-cologico che si oppone con tutta la sua trascinante forza placida e utopistica alle fonti d’alienazione occi-dentale. “It don’t mean a thing” sembra, se uno si ferma al titolo, lanciare un messaggio opposto, e ciè che tutto ciò non significa nulla, ma in realtà il senso del classico che fu di Duke Ellington, con testo di Irving Mills, è che “Non conta niente, se non ha quello swing”, e devi dare tutto ciò che hai a quel ritmo, non im-porta se sia (jazz) freddo o caldo; quindi quella di riportare solo la prima metà del titolo è una trovata tanto sorniona e dissimulatoria, quanto invece terapeutica e vitalmente frenetica è la musica, tutta strumentale, af-fidata a ritmi caraibici infaticabili e vertiginosi assoli free, con i diversi strumenti a darsi il cambio in eleganti e veloci staffette, che dimostrano tutto il virtuosismo di questi musicisti i quali così sfoggiano, oltre che una solida preparazione, anche un’inclinazione alla mollezza tropicale che non farà felice l’inflessibile ministro Brunetta, che eppure qualcosa di etrusco, secondo noi, ce l’ha!
Wanasgana l’hanno escogitata bella fresca: come se non bastasse l’adesivo con il logo “Chicco” sulla grancassa, e le Converse di tela ai piedi, il gruppo si è dato un nome che è il calco sfrontato di quell’Awanagana che col suo look da pirata figlio di giostrai si guadagnò un posto al sole tra i conduttori radio-televisivi ini-ziando su RadioMonteCarlo agli inizi degli anni ’70; il suo nome, spiegò, deriva dall’indio latino-americano, “a venar gana”, ovvero “raccogliere il desiderio” e in senso ampio “io desidero per te le cose che non ho nella vita”, un augurio che da piccolo usava come intercalare fino a guadagnarsi il soprannome. Gli Wanagana invece vogliono conquistarsi ben altro, ed infatti, ben agguerriti sotto il profilo sonoro, hanno confezionato un grunge-pop di impatto pressochè irresistibile, con testi in italiano che dovrebbero procurargli la sudditanza di tutta la FM, non solo di RadioMonteCarlo. Ad esempio, “Nuova Samara” ha un contrappunto ritmico smanet-tante, un drumming tumultuoso e fitto, e poi una chitarra che traccia il riff più grintoso della comitiva, prima che la voce con diverse tonalità esibisca la nevrosi provocata da una tizia il cui comportamento s’è evoluto in modo imprevisto negli ultimi quattro anni; il bridge esprime una perplessità rimuginante, su cui presto sdi staglia la seconda chitarra, in un crogiuolo strumentale gustoso ed energetico di rivolgimenti interiori che mantengono però armonia invece che lasciarsi andare a distorsioni belluine, e ciò permette in genere di conquistarsi pubblici ampi, che cercano una comunicativa straight. “Qualcosa è rimasto in sospeso”, rispetto a quando si desiderava che lei si lasciasse scoprire, ma ora non si sa più chi si ha davanti, ed è una rivalsa per la pazzarella; chissà cosa gli ronza in testa, avrà sedimentato qualche acida follìa? O forse è “Senz’anima”? No, quest’altro brano si sviluppa a partire da giri di basso e chitarra un po’ funky “esisterà una soluzione agli imprecvisti della vita? Io non l’ho mai trovata, ma non si sa mai”. “Ritornare agli anni d’oro” sarebbe l’optimum; qui il ritornello parla di rinascere come un’araba fenice e lasciare in cenere tutte le scorie. Possiamo dire di esserci riusciti brillantemente, se componioamo con questa velocità di esecuzione e con questi riff arricchiti da germi mutageni in termini di variazioni sul tema che richiedono tecnica e reattività che chi è davvero senz’anima non può certo vantare. “Morale” è dichiratamente rock, con un riff elastico di chitarra ricorrente piuttosto hard, che però nel sottofondo per la voce del lead singer opportunamente si smorza, mentre è quest’ultimo che alza il tono di un paio di ottave nel ritornello per staccare le sue rivendi-cazioni dal tessuto aspro e abrasivo della struttura chitarristica. “Sei tutto quello che di peggio al mondo non si incontra mai” è una dichiarazione impegnativa, molto “sputata”, con quel “Sai…!” e quel “…mai!” ma le esperienze quando diventano rancide, danno un cattivo odore che arriva lontano nel tempo e nello spazio, tuttavia se si sublima l’eruzione adrenalinica in un ruggito da ribelle si troveranno presto etichette pronte a mettere sotto contratto gli artefici di queste esternazioni vigorose, mentre chi ha dato certe orrende prove di sé si merita ben altre etichette, che qui per amor di decenza non menzioniamo. Grinta e orecchiabilità sono il patrimonio di questa band romana, che ha al suo attivo già l’EP stimolante con i tre pezzi qui commentati. Attenzione però a non montarsi la testa: un tale Andrea Cipolla, che ho pescato in un forum, ha detto che era sempre stato convinto che “auanagana” non fosse altro che l’intercalare di Nando Mericoni/Alberto Sordi nei panni di in “Un americano a Roma”. Scherzo!
I No_Disc nascono nel 2006 con Alberto Laruccia (chitarra e voce) e David Guido Guerriero (batterista), provenienti dalla Scuola Popolare di Musica di Donna Olimpia e pensando di NON voler produrre alcun disco, hanno coinvolto in questo progetto disinteressato subito un bassista e seconda voce; ma davvero l’i-dea di partenza è stata quella di non bloccare su un supporto rotondo alcunchè di ascoltabile, absolutely No_Disc, ma piuttosto pensare prima a metter su un sound complesso e sorprendente, che non fosse facil-mente inscatolabile ma che al contempo fosse afferrabile a come da tutti gli amanti del prog, me compreso, che non aspettano altro che ritrovarsi a runminare con le orecchie qualcosa di non banale e magari genia-loide. E i No_disc non millantano le loro influenze: attualmente con “1020 secondi”, dall’inizio eroico, propon-gono l’innervamento di sonorità sorprendenti su basi sode, e delle partiture vocali che dimostrano una certa ascendenza dal progressive storico, con i rimandi testuali ad una mistica laica italiana (PFM, Banco del Mu-tuo Soccorso) che però ha il respiro dei Gong e l’irrinunciabile ahimè appeal delle vague alternative degli an-ni ’90 e Duemila. Le impalcature visionarie sospese tra evoluzioni mental-strumentali e scenari poetici di apparente fragilità danno luogo a strutture avvincenti e composite in cui la voce solista si segnala per cre-dibilità e afflato psichedelico, mentre il posto occupato dal sax nella strumentazione crea un effetto sorpresa che arricchisce il sound pur senza inacidirlo con interpretazioni dissonanti alla Van der Graaf, ma piuttosto tirando fuori sapori alla Gentle Giant, a tratti. Il sorriso fatale delle vecchie fiabe stampa il suo senso su barbagli sonori, come detto, poco imbrigliabili. “Il viaggio di Dum” è appunto una filastrocca, una sciarada so-nora, affidata ad un esercizio vocale vagamente medievalistico e ad una sarabanda forgiata dalle zigzaganti capriole sotto forma di riff, imparentata alla lontana con “Knots”, ancora dei Gentle Giant, e la sommatoria e di un’ironia beffarda che aggiunge un’ulteriore dimensione allo spartito lussureggiante del gruppo. Nel video “L’equilibrio della sfera” si coglie l’assoluta frenesia di un approccio che intende dispiagare tutta la propria valentia senza concedere requie ma anzi integrando al suono deliziosamente datato di un organo dispen-satore di prodigi la saggezza sciorinata a mitraglia ritmica di una parte vocale quasi da rapper, con alternati guazzabugli di sax e chitarra spigolosa, mentre i componenti del gruppo si dimenano nelle più pazze e giocose attività, in un piano-sequenza accelerato, per tutta la sala di registrazione, dopo aver rimosso dal suo piedistallo la magica sfera, che il santone, rimasto sempre seduto, alla fine del video, quando l’helza-poppin’ sperimentale s’è esaurito e tutti sono stanchi, riposiziona al suo posto chiudendo il cerchio, rigonfio di contenuti e rimandi, ovvero “La nuova musica”, irridente e funambolica, che i No_Disc stanno tracciando con la loro proposta – capace anche di un po’ di quieta solennità nei “Pensieri”, con un filo di tastiera, il testo sensibile e l’interminabile struggente assolo di chitarra – ma insomma capace di portare a sazietà anche i palati più esigenti! Dimenticavo: il loro… Disc poi è uscito, si intitola “C’era una volta un folle”, ed è in vendita sui maggiori music store on line!
il7 – Marco Settembre
Cecilia Amici, EtruSkaJazz, marco Settembre, martelive, martemagazine, musica, No_Disc, Rubrica Il_7 su, Wanasgana