L’arte di Aleksandr Deineka
[ARTI VISIVE]
ROMA- E’ difficile riuscire a immaginare una storia dell’arte europea senza considerare l’impatto della cristianità. Quella del sacro è una componente che ci ha trainato direttamente dal canone di Policleto alla modernità impressionista.
Se non avessimo avuto il senso del divino nel mondo dell’arte, il Rinascimento non avrebbe avuto ragione di esistere, e Monet non avrebbe mai prodotto cinquanta tele diverse della stessa identica cattedrale. Tutto quello che è venuto dopo, compresi gli avanguardismi di protesta nei confronti del sacro, non sono che una conseguenza.
Per molti versi, Aleksandr Deineka, sembra invece essere riuscito a riassumere i valori più importanti della nostra storia dell’arte europea, scevrandola di qualsiasi ombra di cristianità. Figlio di una imposta e imponente cultura sovietica, Deineka dimostrò di conoscere alla perfezione tutti gli stilemi tipici dell’arte occidentale, dal Bello classico alla compenetrazione dei piani futurista, passando per il frenetismo della pennellata impressionista e le prospettive contorte del surrealismo. Il tutto in onore della propaganda.
Chi dovesse trovarsi ad affrontare per la prima volta le sue opere, soprattutto quadri e mosaici, in mostra al Palazzo delle Esposizioni fino al 1 Maggio, non deve temere la solita monotonia di un’arte al servizio del regime totalitarista. Deineka, sebbene sia uno dei maggiori pittori e illustratori del ‘900 dell’Unione Sovietica, è un artista che sa opporre la propaganda all’amore per l’infanzia, i forti contrasti di colore della guerra con l’armonia impressionista di un paesaggio di mare. Ha dedicato una sua intera serie di quadri (“Foglie secche”) al valore intrinseco del contrasto: contrasti di colore, contrasto tra vita e morte, politica e moralità. Il tutto demarcato spesso da una linea che taglia la tela in due parti, spesso camuffata da una via di campagna che parte dall’orizzonte per arrivare al centro in primo piano, o dal lato di una finestra aperta che lascia vedere a metà tela un paesaggio solare, che non riesce a illuminare interamente un vaso di fiori mezzo essiccato.
Ma il vero amore di Deineka è sempre stato lo sport. La perfezione del corpo greca deve avere per lui una catalizzazione, non può essere semplicemente contemplativa. Lui stesso era uno sportivo, appassionato di box, e imponeva ai suoi studenti di applicarsi all’attività motoria tanto quanto all’arte. Staffetta, calcio o semplice ginnastica, spesso anche in contemplazione della nudità: per Aleksandr tutti gli sport erano il pretesto perfetto per rappresentare un forte bisogno di dinamismo, rielaborato direttamente dall’amore per la macchina e per il progresso futurista. Un amore che lui stesso dimostrò di aver provato in passato, nelle sue rappresentazioni della rivoluzione industriale sovietica. Ma se gli anni venti avevano significato per lui tanto dal punto di vista della meccanica (come nell’opera “Sul Cantiere Dei Nuovi Reparti”), negli anni trenta la sua ricerca è più incentrata sulla dimensione umana (“Portiere” e “Ginnastica Mattutina”), sia per quanto riguarda lo studio del corpo e dell’infanzia, che per il suo esatto opposto: la guerra e l’annullamento della corporalità. “Il Mercenario Degli Occupanti” è forse la sua opera più d’impatto, in questo senso: un soldato che sembra quasi stare in posa, mentre alla sua destra giacciono corpi di prigionieri appena giustiziati. Ma è soprattutto nel suo “Stato Maggiore dei Bianchi: Interrogatorio” che si vede in maniera ancora più evidente il forte contrasto che caratterizza le sue opere. Un prigioniero (Rosso) contempla l’immoralità dei suoi carcerieri (Bianchi), è la sconfitta della sua fazione non diventa altro che una vittoria di moralità.
I valori epici della guerra arrivano però con il secondo conflitto mondiale, in occasione de “La Difesa di Sebastopoli”, città che lui aveva sempre amato, per i suoi paesaggi balneari così come per il passaggio continuo di quegli aerei che da sempre avevano affascinato il suo senso del dinamismo.
In prestito dalla Galleria Statale di Tret’Jakov e dal Museo Statale di San Pietroburgo, le opere attraversano la storia sovietica dagli anni ‘20 ai ‘60, e ci mostrano da un punto di vista terzo quali potevano essere le possibilità del resto d’Europa in fatto di arte, e quanto ignoriamo di un’arte che normalmente avremmo distrattamente definito “di regime”.
Giampiero Amodeo
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