Storia di un impiegato dal disco al palcoscenico
[TEATRO]
ROMA- Il passo da compiere era breve per portare in teatro il concept album di Fabrizio De Andrè Storia di un impiegato (1973), andato in scena al Teatro Lo Spazio il 15 e 16 febbraio scorsi. Breve perché il disco è stato costruito con un vero e proprio andamento narrativo in cui il protagonista, l’impiegato, compie una tragica parabola di presa di coscienza politica.
L’autore Enrico Di Fabio ha comunque intrapreso un compito arduo nello scegliere di interpretare uno dei lavori più controversi dell’indimenticabile cantautore genovese, che, volendo dare una propria visione poetica del ’68, non riuscì comunque ad evitare un discorso politico oscillante tra l’individualismo anarchico, il marxismo e, contemporaneamente, un’aspra critica a quest’ultimo.
Il disco diventa commedia musicale attraverso la compagnia di attori di due associazioni culturali di Anguillara Sabazia, L’Acquario e I Saltati, che hanno portato finalmente il loro musical anche a Roma, con grande soddisfazione. La musica dal vivo è una scelta che coinvolge maggiormente lo spettatore in questo racconto musicale.
Protagonista della vicenda è il poco più che trentenne Antonio, impiegato per merito e volere del padre che vorrebbe vederlo percorrere soddisfatto le sue stesse orme: lavoro, casa, famiglia. Anche sua madre lo vorrebbe sereno, sposato e senza grilli per la testa. Antonio, però, sente che la vita non può racchiudersi tutta in quel tiepido microcosmo borghese e, affascinato dalle rivolte sociali di quegli anni, inizia a sviluppare una propria forma di resistenza al sistema del Potere. I suoi colleghi si dimostrano indifferenti ai timidi abbozzi di discorsi politici, mentre trova la giusta compagnia nei collettivi universitari che discorrono di marxismo, leninismo e lotta di classe. In questo contesto conosce Giacomo, il Bombarolo, che lo introduce fatalmente nel mondo degli esplosivi. Pressato da un matrimonio che sembra il solo coronamento dell’amore e dall’impotenza di trovarsi imprigionato e solo in un meccanismo che essenzialmente lo ignora, volendolo un ennesimo impiegato-operaio sottomesso, il giovane compie un maldestro attentato esplosivo al Parlamento, il cui fallimento non farà che spalancargli le porte del carcere. Qui, a contatto con la sofferenza e l’assurdo di tale esperienza, matura un nuovo concetto di lotta che, finalmente, abbandona l’individualismo violento e prevede l’unione collettiva nella lotta.
La presa di coscienza avviene con le note de La canzone del Maggio, le cui parole rendono le notti del giovane piene di sogni inquieti espressi nei brani Il Processo, Al Ballo Mascherato, Sogno numero due e La canzone del Padre. Le scene oniriche contrastano felicemente con il realismo delle scene domestiche e sanno rendere fedelmente la visionarietà del cantautore, come quando Antonio viene crocifisso dopo esser stato -nel suo incubo- considerato colpevole. Anche il ballo mascherato è ben reso: gli attori sono spersonalizzati sotto maschere bianche che, come il sistema, eliminano la personalità individuale per trasformare i partecipanti in fantocci che spaventano Antonio con sorrisi che troppo rassomigliano a dei ghigni malvagi.
Il teatro Lo Spazio è tornato a proporre uno spetaccolo ispirato alla musica di Fabrizio De André, come aveva fatto in precedenza con Frencomio con la Compagnia Quarta Parte. L’interesse ormai rinato da anni per cantautori come De Andrè, Gaber o Gaetano è forse il risultato della preoccupante somiglianza che si può avvertire nella società attuale con quella degli anni ’70, scossa da una profonda crisi evidentemente risolta solo in parte. E ancora una volta è l’arte che fornisce se non delle risposte, almeno alcune strade interpretative per destreggiarsi in una realtà caotica.
Francesca Paolini
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