L’ultima spiaggia
[ARTI VISIVE]
ROMA- Il 26 settembre 2010, a partire dalle 16:30, presso l’Atelier Meta-Teatro, in via Natale del Grande 21, si è celebrata sommessamente la fine dell’estate, un malinconico momento di passaggio da una passeggera eruzione di euforia ad un senso di rinuncia che digrada verso un ripiegamento oscuro.
Non ci sarebbe probabilmente niente da “celebrare”, alla lettera, se non la prima videoinstallazione di una giovane promessa della videoarte italiana, e romana in particolare, Salvatore Insana, laureato al Dams all’Università di Roma Tre con una tesi sul concetto di inutile, sospettato di essere in contatto con cattedre, riviste e menti provenienti da altri pianeti, e peraltro già noto con il nome comune e sfuggente di Sam ai frequentatori degli angoli più curiosi e stimolanti del web, si veda http://workinregress-sam.blogspot.com, su cui diffonde con discrezione parole, immagini fisse e in movimento da lui ricercate senza apparente accanimento.
E la tendenza di questo giovanotto a rivoltarsi con ironia tra le pieghe del linguaggio sfogliandone le possibilità, incurante delle implicazioni più dolorose, non si smentisce neanche in questo lavoro, articolato in due sale, e consacrato ad una sorta di esistenzialismo light, che promana con delicatezza da certe piccole cose che restano quando scartiamo ciò che invece di norma viene mantenuto perché grosso e materiale. Come l’autore ci ha confidato, questa è stata un’estate intensa per lui, ma anche le onde più lunghe, che trascinano con sé i piccoli tesori più inaspettati, scorrono veloci e alla fine si infrangono, e lasciarvi sopra le impronte dei nostri desideri non basta a trattenere l’effervescenza della spuma, bisogna trovare una diversa collocazione ai sacri feticci di questo tempo laterale, intubarli al sicuro, dare continuità alla loro epifania, immergendosi in essi e massaggiarcisi le tempie e il cuore, alla bisogna, come alghe zuccherate.
Nella prima sala, al buio, l’osservatore viene infatti trasportato con discrezione in un’atmosfera da residuo d’un tempo che scolora, che è poi lo statuto di gran parte della videografia, ma qui il testo filmico, in bianco e nero, ha a che fare con la dimensione nazional-popolare di questa sensazione, ed è questo che induce compiacimento, in quest’opera. Si assiste inizialmente al frusciare di qualcosa che sembra una gonna, forse l’esemplare sottana a cui ciclicamente ci si aggrappa, e invece si tratta dei lembi del cappello d’un ombrellone chiuso, sullo sfondo d’un mare modera-tamente mosso e d’un cielo piattamente grigio, da fine Agosto.
Sul bagnasciuga c’è un gruppo di scogli che si protendono verso il mare, gli schiaffi delle onde replicano quelli del destino e un osservatore, attore di certo non protagonista, seduto lì in mezzo, dopo un po’ si alza e si allontana, ma senza mai separarsi veramente da quel pigro andirivieni delle onde, sempre sul punto di risucchiarci definitivamente. Il sottofondo sonoro sembra affidato a minuta ferraglia sbattuta da qualche parte dal vento, tintinnii interpretabili come tentennamenti di qualche altra forza acquattata nella sua tana a spiare i nostri malumori.
E invece sono suoni che provengono dalla seconda sala, ma il fruitore esita a trasferircisi subito, perché il suo pensiero inquietamente molleggia sull’ idea filmica di quell’estate ormai insabbiata come un incartamento compromettente, come un periodo di solarità inconfessabile che ora dobbiamo in fretta rimuovere, perché in distonia con le condizioni del pianeta e con il tramonto delle illusioni.
Sono immagini della persistenza di un sogno, visto da una cella della memoria in cui il parassitismo autoanalitico ha costretto le cellule di un cervello, che vorrebbe lasciarsi incantare a lungo dal tempo esteso e che invece è affranto per una mancata invasione aliena. Il dolmen di legno, dritto davanti al mare che si sbatte ritmicamente sull’arenile, avverte probabilmente che la rivelazione dell’importanza delle minuzie e dei minuti è solo rimandata, come sempre, in attesa di un pieno che davvero plachi non la sete di senso, ma i postumi dell’indigestione di non-senso.
Questo minimalismo vibratile si pasce intanto dei residui d’una stagione che sfuma ipnoticamente verso una fase di smontaggio del pensiero, in cui si va alla deriva perfino sulla spiaggia freddata dalle raffiche di vento. Tutto è normale e al tempo stesso non si spiega, ma si ripiega in vista di un’ibernazione che è la nostra condizione dominante, in cui ci irrigidiamo, bloccati nei ruoli imposti da un meccanicismo provinciale rispetto alle più avanzate coste cosmiche.
Nella seconda sala, sei materassini di gomma sono disposti allineati tre a tre sul pavimento, ed hanno sulla superficie un disegno mimetico di tipo para-militare che però schizofrenicamente con-tiene anche le forme naif di un fiore, di una palla e di un secchiello, malgrado il tutto abbia i toni del grigio. Il pubblico viene così invitato implicitamente a distendersi e cercare di recuperare per sé un tempo che comunque sarà definito morto dalle logiche dominanti, circostanza che ci viene ricordata dall’odore di gomma: i visitatori sono lì a prendere non il sole, ma il freddo d’un’esi-stenza che scivola via leggera, ma spesso insapore. Eppure, alzando gli occhi al cielo negato dal soffitto, favoriti dal buio onirico della proiezione, i fruitori scorgono da sotto in su (in un secondo filmato proiettato appunto sul soffitto), una lastra di vetro o di plastica attraverso la quale un cielo sereno, appena solcato da sfarinate nubi, è effettivamente visibile, mentre qualcuno, di cui a tratti compare il braccio, lancia oziosamente sassolini sulla superficie vitrea, su cui essi rimbalzano, solo raramente fermandosi nell’inquadratura.
Ecco dunque cos’erano i suoni che si udivano fin dall’altra sala: sassi sul vetro e la lontana risacca del mare. Il pubblico si distende sui materassini approfittando della natura interattiva del setting, si rilassa e assiste al tintinnio interpretandolo non come una tortura cinese, ma come un passatempo zen.
Al tempo stesso, non possiamo nasconderci, come indicato dallo stesso Insana, che la breccia nel vetro è l”incrinatura finale d’una stremata estate sdraiatasi lentamente al buio e mai più rialzatasi” e dunque anche noi stendendoci nell’oscurità a seguire quel pigro bombardamento di ciottoli, rischiamo di provare l’ansia che la volta delle apparenze, con tutta la loro incerta simbologia ci crolli addosso, ma rischiamo intanto anche la crisi picnolettica o di essere minacciati “da qualche salvifico oggetto (alieno o artistico) non ancora ben identificato”. Infatti i materassini “combat” sembrano esser stati varati da un commando alieno spedito a sabotare, con un blitz, la percezione frettolosa di un mondo crepuscolare eppure arrogante, che macina le coscienze nel grigiore di freddi apparati invernali. Ecco, la missione forse è trovare luoghi sempre variabili, giammai “a ciò deputati” per liricizzare gli errori che ci rendono non conformi (come sostiene Roberto Nanni, noto videomaker cui Insana spesso rapporta il suo lavoro).
Al contempo, gli spettatori avvertono vagamente di non essere il solito “soggetto trascendentale” della visione, su/dal cui occhio tutte le linee prospettiche convergono o si divaricano; no, la visione non è onniveggente, perché il vero dio è l’Autore che, con calcolata accidia, lancia nel vuoto celestiale del cielo azzurro o dello spazio assoluto quelle pietruzze, favorendo una riflessione in virtù della quale non tardiamo a riconoscerci come analoghi “accidenti” lanciati a galleggiare tra le sfere cosmiche, o meglio a rimbalzare su indifferenti trasparenze senza riuscire a trattenersi con la mente sullo spirito vitreo di questi echi d’una elemosina esistenziale: vite gettate nello stagno, gocce in un mare sempre uguale finché non lo scopriamo diverso. Magari all’ultima spiaggia.
Il_7 – Marco Settembre
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