I motivetti, le cinghie, i battelli, l’Appennino
[IL_7 SU…]
Elena, da ora sarà per me l’evocativo chiacchiericcio d’un’anima che pizzica gli arrangiamenti acustici minimali in modo non monocorde, mentre finora era stato, invece, il ricordo d’una acuta compagna di classe che mi iniziò al jazz-rock rifulgente ed edonista che era stato suonato da capelloni maniacali circa quindici anni prima che io ci capissi qualcosa.
Ma in comune tra quel ricordo ed questa Elena c’è l’espressionismo, ora in versione puntinista, punticchiato di pensieri che si schiudono uno dentro l’altro, e le immagini poetiche che si rincorrono gridando ognuna la loro destinazione negata, come ad una stazione impazzita presa dall’angoscia del terrorismo psi-cologico. Infatti tra le informazioni presenti sul MySpace, leggiamo: “Arriveranno i treni in ritardo, in anticipo sulle stagioni, e sopra ci saremo noi, con l’autunno nelle tasche per portartelo in dono, appena arrivati in città”. Bisogna pensarci a Luglio, però, per capire bene come girarci intorno. “Polsi sottili” rimugina ad ondate su una pista fatta di binari paranoici arpeggiati con una chitarra viaggiante che vede in sobborghi indifferenti la patria d’elezione di reticenti equilibri di coppia. “Cosa mi risponderesti adesso se io ti chiedessi di portarmi ad abortire le speranze nelle stanze silenziose… Se ti chiedessi se tutto quel barocco abbia influito o meno sulla nostra meccanica?” Nella monotonia tesa brulica un’ansia sottile come i polsi di lei, in cui fluiscono delle analisi non completamente solubili. Nella sezione centrale, i due amanti finalmente dormono, a parole, “se-polti in campi d’ortiche”, come in un rituale celebrato in onore dell’assenza, “incoscienti… e negli arresti impliciti a cui nessuno cede”. Ma tutte le combinazioni sembrano già provate, anche se non sembra ci sia stato nulla in particolare a rivelarlo; comunque “Adesso smetti, contentati dei tuoi polsi sottili, delle tue vene mobili e dei tuoi gesti nobili, adesso smetti, il peggio è passato, dicevano, e del meglio possiamo farne a meno”. Forse il gioco non vale la candela, e infatti non si riesce a fare luce, e si resta per puro piacere a brancolare nel buio, perchè fa sexy, e nessuno dice proprio tutto nella maniera in cui ce lo si aspetta, “E se ci tieni tanto, ora, puoi contarmi i passi e guardarmi le spalle”. “L’abitudine a Firenze” ha un’articolazione di corde che si estrinseca in un ammodernamento delle quartine rinascimentali, che non aspettano niente se non un letto, una civetta e una chitarra per fare il conto in penombra con tutto quello che ci perseguita sussurrando l’indifferenza degli arredi di una vita estranea, alle nostre insoddisfazioni, figlie di ambizioni male espresse. Le cadenze alla Carmen Consoli si accavallano su testi che tracciano connessioni tra arcipelaghi di questioni irrisolte, “Alta tensione di fili sottili avvolgerli per arrivare all’errore”. Ma è un’impresa onerosa a fondo perduto, garanzie zero. “Ci abitueremo all’alta stagione, alla bassa definizione”; infatti il riscaldamento è globale e la tecnologia non mantiene le promesse di felicità. “Spegni la luce, chiudi la porta, la colpa era mia, che importa?” “Appunti di viaggio” sembra più distesa: “Si è tanto parlato, e adesso ci tocca riprendere fiato”. Ma poi si rischia di abituarsi a fare il manichino, non si interagisce, si è in ballo e si balla questa ballata rimirando le spigolature dei deliri riposti nei bagagliai delle auto più lente, distraendosi attraversando in viaggio angoletti di mondo dove non ci stanno sempre con gli occhi o col fucile puntati contro, e cantando e fischiettando “motivetti impercettibili dai tempi dispari”, come nel finale del brano. ”Saremo sospettosi”, su un arpeggio e un cantato che si articolano a vicenda dissimulando la preoccupazione, sembra un programma risolutivo, che promette un’attenzione non ingenua perfino verso il tempo strana-mente troppo mite, ma soprattutto alle parole ambigue. E allora stiamo freschi pure ad Agosto! Uno stile “pesantemente acustico”, terapeutico forse per gli anziani oppressi dai giovani problematici, e che suggerisce a tutti di scriversi addosso bene, facendo propaganda rapsodica dei propri impicci, disponendoli in una musica tenue per non intimorirsi con l’ombra del proprio rumi-nare!
The Litchous è una compagine tutta al femminile di musiciste che sarebbero “deliziose” se non fossero costrette a tirarsela per rispondere con la giusta aggressività allo scetticismo di un mondo musicale che non nasconde il proprio maschilismo neanche quando approccia delle belle chitar-rine. E allora loro si tramutano in litchous, ovvero little bitches, diciamo cagnette o carognette, che non è facile conquistare con quattro moine perchè ti mordono con un sound nervoso, perfidi-no eppure stuzzicante. E quando alcuni si accorgono che le signorinelle toste non fanno le cose per ridere, sanno anche suonare, allora quelli rosicano anche il doppio, perchè sono costretti a mettere in dubbio la loro virilità e a farsi delle docce gelate! “Candy belts” inizia con una serie di frasi accattivanti ma insinuanti, pronunciate per far cadere in trappola chi adora i canditi colorati e le labbra col gel, ma l’ipnotismo sofisticato è alternato, tra apprezzabilissimi echi elettronici, a sgroppate rock di piglio internazionale, non grettamente italiche, che dimostrano la durezza del cuore di quella streghetta bizzarra capace di strangolare l’intero torso del suo amante di turno con cinghie (belts, appunto) allo zuccherino con cui lo “incastra” e lo strizza, per poi condirci il thè da offrire agli orchi. Il sound è brillante, basato su una buona tecnica; non a caso le musiciste a-mano “il suonato” autentico: usano solo amplificatori valvolari e pedaliere analogiche, e la loro batteria è rigorosamente acustica. “Mare di vetro” nasce su un arpeggio elettrico e sulla voce da incantesimo, poi la tonalità sale insieme alla chitarra, che diffonde scampanii sonori in un ritornello che s’ubriaca di meravigliosa vertigine; l’assolo è poi bello storto, espone il riflesso specchiato del mare e del sale che sulla pelle “brucia se perdo te” con un’ottica alterata da una visione pop-psichedelica. “Precious” sembra l’eco lontana di un indie rock più rilassato, da sano disarmo, la voce sembra inseguire il modello di una Nico assonnata, ma poi si scuote dalle dolcezze che tendono a far abbassare la guardia e mostra, con un vigore inaspettato di chitarre massive e l’intermezzo di una voce che lancia tetri annunci, tutta la determinazione necessaria ad una pseudo-zingarella “di rottura” per tenersi stretto l’uomo giusto, una volta che lo si è trovato in una folla di bruti con le mani sudaticce!
IF – Isolati fenomeni per fortuna si sono riconosciuti reciprocamente come tali a dispetto delle loro influenze divergenti e si sono messi insieme (in senso buono!..) con l’intento – chiaramente visibile sia a chi fiuta il talento, sia perfino a chi ha fette di prosciutto cotto sulle orecchie – di elaborare sotto varie forme musicali un loro comune afflato poetico che fa da sostrato, evidentemente, ad una tendenza a concepire la vita come un tour ininterrotto, dal Coetus Club alla Sta-zione Birra. La loro cifra espressiva tocca il funky, ma si nutre in prevalenza di blues anni ‘70 e di poco pop anni ’80, interpretati con un calore che scioglierebbe anche un robottino anchilosato! “Indizi” sembra un lamento – lanciato dalla chitarra di Spillo e non da John Mayall, e con la fisarmonica a bocca invece che con la fionda – verso una luna sudata, ed interpretato da una voce fem-minile, quella di Loredana Di Falco, che dimostra il suo virtuosismo con vocalizzi acrobatici, in su e giù accesi da un’emotività sulle montagne russe, che entusiasmano mentre intrattengono con testi che spingono la poesia ad infilarsi nelle situazioni psicologiche: “Se questo è vita fran-camente non so, dei buoni indizi adesso in mano li ho… a continuare il gioco non ci sto… dipingerò sulla tua faccia la sorpresa che qualcuno al mondo sa difendersi da te”. “Geese in flocks” (Papere in stormi”) è una fioritura di trombe e accenti jazz-funky e tocchi di flauto dis-seminati in un nastro elegante alla ricerca di aromi perduti, insieme a “Luci nella notte che si ac-cendono sul mare”, come una conturbante sinuosità sonora che cerca di accomodare le situa-zioni sentimentali pericolanti in crociere fluviali a bordo di battelli diretti a New Orleans, fumanti e stacarichi di poveracci vestiti alla meno peggio. Anche “Niente di noi” tiene spalancate sul passato quel crogiuolo di note che avvolgono le già contorte giravolte del destino, in cui le cose buone a volte perdono il succo: “Ho fatto le valige senza dire niente. Un grido silenzioso solo nella mente. Il disprezzo di questi giorni sta lacerando i miei ricordi…” La chitarra di Spillo si contorce in interminabili assoli estremamente loose, mostrando uno stile che si compiace di come si naviga a vista nei guai. “Il segreto” presenta un tessuto più pop, su cui è cucita un’atmosfera sintetica grazie allo sfondo disteso di tastiera con una variegata sezione percussiva a rendere esotico l’ insieme. La tastiera si ritaglia un assolo a metà brano, poi la vocalist recupera il suo aplomb di sovrana indifferenza, e chiude la chitarra con alcuni svolazzi che puntualizzano i termini di una discrezione armonizzante. “Ritornare” si giova di un organo fusion e di una chitarra che manovra, insieme alla precisa e puntuale sezione ritmica, per ricreare uno spirito adatto a riaccogliere i sentimenti soffocati, ma, a parte la soffusa piacevolezza, è solo un’illusione “negare l’evidenza che sei stato tu a dissolvere tutti i miei sogni e non pensarci più” e, affidandosi al canto libero “yeeee-ee-ee!!”, ripercorrere col pensiero, da sola, la strada che s’è perduta, come risulta dalla “coda” rallentata e rarefatta, segnata tra l’altro dal piano, che accompagna la trance con accenti solidali. “F.A.L.L. – live studio take” è un capriccio funky dominato inizialmente da un riff di chitarra su cui si costruiscono variazioni, poi una tastiera molto free divaga con gusto, il tutto in una improvvisazione strumentale corale, buttata felicemente “all’ammasso”, con gli strumenti oltre l’o-stacolo.
I Sufi Garage, consapevoli che il sufismo non prevede una classe sacerdotale o altri intermediari tra la divinità e le sue creature, si sono forse chiusi in un garage arredato come un tempietto de-dicato alla musa Euterpe e hanno scelto, come guida remota alla loro personale indagine sulle fonti dello spirito, il sublime e maniacalissimo Robert Fripp, citato ambiziosamente tra le loro influenze. La ricerca spirituale così condotta è una dura impresa, e per non cadere preda degli interessi mondani, i componenti del gruppo si sono rivolti alla musica, perchè se Hasan al-Basri ha affermato che il mondo è un ponte sul quale si passa, ma su cui non conviene costruire nulla, creare musica consente di costruire se stessi attraverso un’autodisciplina ma producendo qualcosa non di materiale, bensì virtualmente inafferrabile come le onde dell’oceano o il naso dell’ippogrifo, con rispetto parlando. Comunque, dopo il periodo delle reinterpretazioni dei brani di Battiato, con cui il gruppo è giunto ad avere contatto diretto, la svolta più rock-sperimentale li ha portati a cantare “Vado al mare”; sembra una conseguenza inaspettata e paradossale, ma c’è di mezzo la voglia di creare dei cross-over cantabili in italiano, con una irruenza indie rustica, due voci che si si rispondono in un bluesone hard d’altri tempi, e le scariche a sagomatura rigida della chitarra nel mezzo, con l’assolo spettrale e deviato, sopra un corposo tumulto ritmico (ottima la batteria). “Maledico me” è ugualmente ruspante, e la chitarra ritmica sembra più rock’n’roll, a parte l’accavallarsi ricercato del galoppo di tanto in tanto, e poi il rallentamento con il decollo della chitarra ed il ritorno alla rabbia autodistruttiva, che “fa scena” e fa sentire più vivi di chi si piange addosso e si succhia l’alluce! “Veleno” è il pezzo in cui le sonorità, oltre al fraseggio chitarristico, sembrano all’inizio più crimsoniane, e poi strabordano in un rock distorto e poderoso, mentre la voce rimbomba negli spazi delle proprie attese a cuore infranto, dando una coloritura soda e banditesca allo sfogo. Anche “Sono quel che sono” vanta una struttura macinata dentro ad un pozzo da un’entità coi denti spezzati ed una voce da mastodonte dell’Appennino; le deviazioni chitarristiche si fanno tromba d’aria virulenta, sviluppata da una serie di sordidi ripiegamenti della pianura concimata, espressi dall’avventuroso avanzamento di basso, batteria e chitarra verso un’ orizzonte irriconoscibile per i contadini che non conoscono i rifugi anti-atomici. “Questa è la farsa” è invece la furia dissonante, impostata su un riff dichiaratamente hard-rock, di chi nei bridge dice “levatevi dai guai” ma poi sparla di questo governo, accennando, con mirabile cautela politica, al “marcio”. Oh, per Giove, ma come è mai possibile? “L’inganno della libertà” è una parabola dolo-rosa ma con un ritmo andante, rassegnato a vivere senza poter lasciare la porta aperta sotto casa e girare in bicicletta senza essere ammazzato e sentire John Lennon alle 4 del mattino. Il finale strumentale chitarristico, avvitato su una tale scomodità esistenziale, induce a riflettere sulla Quarta Via del sufismo, quella “dell’uomo astuto”, che consiste nell’armonizzazione dell’uomo in tutte le sue parti costituenti, permettendogli di continuare la propria vita quortidiana normalmente, magari registrando degli EP senza pensare a Cicchitto!
il_7 – Marco Settembre
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