Wow! Le verità, la mosaicizzazione e le incrinature
[RUBRICA IL_7 SU…]
I No Wow forse fin dal nome intendono far capire quanto loro amino la sobrietà al punto, magari, di dissuadere il loro pubblico, all’inizio dei concerti, dallo sprecarsi in gridolini e manifestazioni fracassone di apprezzamento e di giubilo.
“Rimpiangi tu” esprime il rallentamento autoimposto da chi ha cercato di distruggere un ricordo riuscendo solo a sfrangiarlo ma non ad eliminarlo dal proprio rimuginamento. Il brano è molto morbido, forse perchè non vi sono scorie tossiche nella storia conclusa, ma solo il trascinamento di un cuore ferito lungo i percorsi di una vita che non concede facilmente piazzole di sosta. Poi il lamento si rafforza in un indie moderato, ma che non s’imbavaglia, perchè accompagna costantemente la linea melodica del cantato: “Ogni soffio, ogni voce è un sospiro che hai strappato a me…“ La voce di Agnese Sciotti è suadente ma ferma, interpreta con partecipazione intima tutte le pieghe d’una coscienza che si gira e rigira nel dormiveglia della memoria. L’assolo è una corrosione lenta, appena mitigata dall’orgogliosa consapevolezza che “è qualche cosa che rimpiangi tu!” “Stèsong” apre con un riff ritmico, ma poi acquista il suo carattere grazie all’ondulata armonia vocale pop, ironicamente soave: “piovono galassie, arriva il mio cavaliere impermeabile…” La band è puntuale nell’alternanza di nervose sgroppatine e poetici ripiegamenti, ed in genere a fornire grintosa baldanza a buoni testi carichi in questo caso di aspettative da favola, libere dalla sopportazione: “Dimmi, mi hai visto spostare le stelle per coprire lo strappo che c’è, in un cielo di cartone?” “Meno male” mette in mostra un lavorìo corposo e fatale del basso, innervato sul battito regolare di un drumming scolpito che sostiene tutto il brano, mentre la voce parla di lividi blu dentro i ricordi: “Meno male che hai distrutto qualche immagine di troppo, hai portato le emozioni proprio dritto nello stomaco”; l’esuberanza è una reazione liberatoria che si tira dietro il sarcasmo di chi ha rasentato la devastazione, deviando appena in tempo verso il disgusto: la voce è disincantata, sale procedendo per svisate in chiusura di frase e sempre nuovi imbizzarrimenti femminili da giovane sciantosa rock un tantino (ehm…) contrariata. L’arpeggio elaborato e gentile in “Sintetico” ci mostra invece una diversa dimensione del gruppo, impegnato in una tenue ballata che scioglie i cristalli dell’ anima e li vaporizza su rivisitazioni anche erotiche, consumate con leggiadrìa. “A volte ancora respiro il profumo sintetico delle tue parole, evaporato per restare attaccato a sensazioni nuove, atmosfere perse, vissute di già”. Storie di rimbalzi sublimati di un passato che esige sempre i suoi tributi musicali, oppure vagheggiamenti di situazioni irreali, desiderate da chi non ottiene suffi-cienti attenzioni? Il finale è aperto dunque ad un languore maturo, dal ritmo più andante sulle ali di vocalizzi aerei; però, please, non fate wow!, ma solo un lungo sospiro!
I Control V si sono battuti contro anoressia e bulimia firmando la musica dello spot “Sei bella come sei”, promosso da DonnaDonna Onlus, ma loro in prima persona sono voraci di esperienze sonore, pur mantenendosi snelli nell’output stilistico. Infatti nella loro lunga storia, e sotto diverso nome, sono stati gruppo spalla per i Marlene Kuntz, Coldplay e Afterhours, riportando un incic-ciottamento dell’ego e conseguenti lunghe “pedalate” in tour per “smaltire” la vittoria all’Arezzo Wave Love Festival. Ma dato che costoro non sono affatto tutte arie e distintivo, passiamo al commento dei brani. In “Da tempo nel Tempo” le chitarre sembrano seguire diversi pattern geo-metrizzando pentagrammi dalla giusta rigidità di verità contrapposte, sostenuti da percussioni di macine stizzite dall’attrito, mentre “non importa quello che hai detto adesso… la tua verità è solo un’altra… so che non è tutto qui, saranno giochi sadici… so che non è dolce come l’illusione che ho”; ci dev’essere una risposta a questo imbottigliamento, dev’essere nascosta da tempo nel tempo, in qualche punto storto, vattelapesca, e intanto uno si arrovella su corde arroventate da un nevrosi controllata! “Colore Viola” è anch’essa decisamente vitale, appesa all’inquietudine osservata con freddezza dal vocalist-chitarrista, “e se poi non ti resta che provare ancora…”: il riff è ritmico ma i suoi toni si incurvano come segnali d’allarme ai quali mobilitarsi psicologicamente e tentare di riconoscere l’odore, il colore, il motivo che dà il senso quando ci si sveglia dal letargo indotto che fa dimenticare. “Cambiano le distanze quando non puoi più rischiare ancora”; qui c’è anche l’inserzione lisergica, in sovrimpressione, di frasi elettroniche di una tastiera allucinata: “il colore viola che ti porti dentro un giorno o l’altro esploderà”, dice il profeta distaccato della shock-therapy. “Le cose che non vuoi”, sono un suono pulsante, ossessivo, sagome chitarristiche, puntello del basso, scampanii tastieristici, ma la voce si stringe attorno a chi necessita di protezione; le cose che non vuoi non le incontrerai mai quando, appena morto, ti addormenterai per sempre nell’inverno, se avanzerai incessante attraverso orizzonti irridenti, in stagioni sempre uguali con “l’età che sentirai”. Il ritornello sembra animato da una solida determinazione, ma la sagomatura generale è robotica e spigolosa, “ogni cosa ha un suono diverso, anche se lo sguar-do ora passa attraverso!”: una storia di fantasmi che si consolano, con il finale che si inabissa in una dimensione indie visionaria, composta da “soltanto luci”. Gran pezzo! Le luci, i suoni anche dance, un pensiero ardito: elementi che corroborano anche i viventi, per quanto stanchi; in “Tre motivi” per non aver più paura, le voci della testa, del cuore e dello stomaco si uniscono a quella dei Control V, che ad una ragazza che impara ad accettarsi dicono, in una delle loro trance benefiche: “Ti farò godere di follia e ubriacare di rumore!”.
Sugli Album Zootique, rispetto al novembre 2008, è bene aggiungere qualcosa: “Fiumi scarlatti” è la desolata contemplazione di scenari urbani gretti e alienanti che si stendono disfatti, sotto una pioggia antracite o un sole all’antrace: “tutti questi disagi non erano previsti, tutti i miei presagi erano terribilmente giusti, i tuoi teneri messaggi erano fiumi scarlatti”; l’eruzione di sdegno è mantenuta sotto traccia da un’arpeggio atterrito sotto cui ribolle l’inascoltata denuncia del paras-sitismo. “Silenzio di carta” risuona tutto in un riff che sembra echeggiare in un pianoro invaso da segni tracciati nel grano da una donna la quale ci inscrive in una casa di silenzi che brillano solo della sua luce, e gli occhi stanchi di lui fanno fatica a distinguerla: l’accartocciarsi dell’assolo attorno alle distorsioni ritmiche completa un pezzo enigmatico che brucia d’un indescrivibile in-cantesimo femminile. Album Zootique in genere aiuta certe sonorità controverse del post-rock ad essere metabolizzate dai zingari, dai giovani e dai top manager strafatti. In questo modo si controbatte, ai diffusori d’arte boombastica, che la strumentazione musicale può, se opportuna-mente elucubrata e non dissonante come uno stridore di freni, mettere in atto sperimentazioni dell’ambiente urbano che pongono in relazione il drumming più efficace con la polenta d’asfalto macinato, e il pogo con i grattacieli dell’EUR di notte. La ricerca di nuove forme scrostate ma liriche di interazione tra i suoni dal vivo e la geometria di sensazioni composte su carta a livello di testi (vedi anche le collaborazioni teatrali del duo), tratteggia infine un sound quadrangolare su un’ipotenusa molto diretta ma non secca, e soprattutto scatta all’interno di un dispositivo di gruppo in bilico tra la dematerializzazione del pianoforte a coda e il ritorno alla fisicità dell’azione chitarristica, (de)costruita quanto basta attorno a due voci forse intercambiabili. In altre parole, viene perseguita da AlbumZootique una mosaicizzazione di micronarrazioni suggestive a cura del poliedrico batterista avellinese Paolo Battista, trapiantato a Roma per riscattare materiali di recu-pero in dipinti mutanti e coagulare componimenti narrativi, ma anche grazie a Marco Preziuso, voce e chitarra di questo duo di guastatori che non hanno “la mente imbastardita dal vizio” ma magari son stati “trafitti da una goccia di rugiada”). Infatti, in un “Cuore criminale” che duole, tra combinazioni di accordi elettrici ben incastrati, si ascolta una voce che invoca una protezione dalla vergogna, diversamente da chi dà la caccia all’autore di Gomorra. E nella sezione finale, un sax schizoide insegue reminescenze progressive intarsiando preziosamente il brano. Un graffio congetturato che non fa male ma si interseca col pensato di molte anime metropolitan-psiche-deliche, esponenti di tribù pronte ai “Muta…Menti” (titolo del loro primo EP).
I Soraya Santa fanno confluire in un meltin’ rock (la definizione è loro) influenze che vanno dalla psichedelia ed il rock anni ’70 alla scena alternative e indie internazionale ma anche italiana. I te-sti, non poco intrippati in tematiche perse, come l’anima e i sogni, sembrano entrare in comu-nione neuromistica con spinte powerful che derivano da una sezione ritmica possente ma anche creativa, che scava conche aride sotto alle atmosfere “spostate” e alle melodie sorprendenti ca-vate fuori da chissà dove da Tony Puglisi voce e tastiera) e Fabrizio Petrolati – chitarre. “Cel-lulosa e piombo” germina da effetti e arpeggi insinuanti, la voce tranquilla sgrana i primi versi, ma la struttura si irrobustisce per poi placarsi di nuovo, e la strofa ritorna, accompagnata da miagolii acidognoli della chitarra solista, e di nuovo il sound si fa nerboruto e travagliato. “L.A.U.Z.I. ha ucciso Laura Palmer” è una rivelazione sullo scomparso cantautore ligure che ci riempie il cuore di struggimento, a quasi vent’anni di distanza dalla mitica serie televisiva, e infatti il trasognato tappeto sonoro mantenuto teso dalla vibrazione ritmica a metà brano lascia partire un tremulo assolo vitreo che dispone tutte le scene più deliranti del telefilm in una prospettiva scolorita di pianto e mucillagine strumentale. “Distanze sospette” è una classicheggiante cristallizzazione di sfumature che in un attimo si distorce in foglie secche e parole che creano allergie dell’umore: l’elettronica collide con lo spasmo indie e con il lamento di catarsi burlesque che scoloriscono in un’attesa patetica. L’intensità è quella di scelte che dovrebbero lavare l’anima, e invece la co-prono di un’insofferenza che si solleva nell’etere senza esplodere, ma solo per un pizzico! “Fra-gile” è il nevrotico sottofondo di un addio ruvido negli effetti, ma lacrimevole nei contorni: “Devi essere forte e dura, non ti devi voltare mai; e non ti accorgi che sei fragile, sei fragile…” Un pen-siero indirizzato a Soraya, la principessa triste? Lo smanettio di rabbiosa malinconia persevera fino in fondo, tranne un breve buco in cui le incrinature sul volto di porcellana rosa si mostrano, in una realtà la cui impalcatura sembra screpolarsi proprio nelle percezioni di chi la sente troppo…
Il_7 – Marco Settembre
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