wAnderland – Non tanto tenere figurine
[ARTI VISIVE]
ROMA- La mostra wAnderland alla Galleria Mondo Pop di via dei Greci 30, presso Piazza di Spagna, Roma, a cura di Serena Melandri, 4 giugno – 31 luglio, è una doppia personale che parte dall’assonanza dei due verbi wonder e wander per suggerire che il mondo infantile ed il suo immaginario, a cui siamo abituati a pensare con meraviglia e stupore come ad un dominio dei miracoli in cui l’occhio e la mente sono capaci di portenti non facilmente replicabili nell’età adulta, è, invece, o insieme a ciò, un regno dell’incertezza, del disorientamento, e questo fin da subito.
Poichè l’infanzia non è un feudo isolato dell’innocenza ma è sottoposta in continuazione alle contaminazioni della morale spesso immorale degli adulti, se non a violazioni esplicite. Il wandering, il vagabondaggio, il delirio fuori dai confini, le deviazioni dalla norma si incrocia dunque con la wonderland terra delle leggende folk, delle fiabe popolari e “scenario incontrastato della Regina Alice”.
All’inaugurazione della mostra, il pavimento della seconda sala era stato ricoperto di foglie secche proprio per ricreare un ambientazione boschiva consona al magnifico polittico di Nicola Alessandrini, in quattro pannelli (olio, grafite, collage su tavola), che ha come titolo “Afolica”, da alfa privativa + acido folico, sostanza consigliata alle donne nei primi stadi di gravidanza affinché l’embrione attecchisca più facilmente nelle pareti uterine. L’opera si pone dunque come una sorta di epopea della difficoltà del venire al mondo e dell’esistere, a prescindere dagli sciroppi chimici edulcoranti che le norme sociali ci prescrivono di trangugiare per illuderci che radicare la propria esistenza nei tessuti sociali ed umani sia operazione indolore. I personaggi sono elementi di un’ allegoria che resta aperta ad interpretazioni accessorie e finali alternativi, ma tramite un intricato sistema di riferimenti iconografici ed emozionali compongono un mondo parallelo grottesco ed incerto, ottenuto attraverso la deformazione della complessità del reale. La favola di Cappuccetto Rosso viene rivisitata presentando, fissi nella loro scenografia tormentata, i quattro personaggi principali: Cappuccetto Rosso, il Lupo, la Nonna ed il Cacciatore, in un intrico di riferimenti che si richiamano in modo simbolicamente “epilettico” da un pannello all’altro dei quattro. Cappuccetto Rosso, mostruoso merlo dall’innocenza fuori luogo, conosce verdi coaguli di funghi fallici allucinogeni della speranza, ma già porta i segni del fallimento della sua missione e del suo incombente destino di morte; il Lupo-Padre, in antitesi rispetto alla teoria del complesso edipico, è orco egoista e borioso, con le fauci rabbiose pronte a divorare il figlio, ma al tempo stesso carponi sul pavimento, prostrato sotto il peso del condizionamento sociale al ruolo di carnefice; la Nonna, secondo l’artista, “rifugge la procreazione per due volte, come nonna e come madr”e, e subisce anch’essa, come quasi tutti i personaggi, la cancellazione deindividualizzante del volto, a cui si sovrappone il sorriso convenzionale, “stampato” e fake, di uno smile da donna-oggetto decostruita, mentre il suo pensiero esplode nella preoccupazione per un feto più temuto che atteso (allevato tra le circonvoluzioni cerebrali, piuttosto che nella placenta) che si rivelerà inadatto a servirla. La carta da parati di questa stanza (l’artista le stampa tutte da sé) ha una decorazione a base di membri virili incrociati o impugnati, etc., quella del lupo è invece composta da feti prodotti da una doppia inseminazione, quasi il simbolo araldico di una incerta paternità. Infatti il nerd Cacciatore, bolso e seminudo (patetici i calzini) è un secondo uomo che interviene a spezzare con carica mortifera la catena di produzione familiare, puntando ad estrarre con la sua mano nera armata di forcipe il neonato stavolta dalla pancia del famelico padre, per restituirlo a nuova vita attraverso l’accettazione della Morte, unica via per la riconquista di un senso morale delle cose, oppure dal ventre fin troppo accogliente della madre, per annullare una gravidanza accidentale negando viceversa lo statuto di realtà ai “sanguinosi” tradimenti perpetrati nel bosco dei rapporti primari e della loro crudele quotidianità domestica.
La “Via Crucis”, 15 “stazioni” di una serie di serigrafie numerate, è un altro viaggio iniziatico compiuto tramite la “sacralizzazione” del banale; al posto dell’”avanzare didascalico e irrefrenabile della salita del Cristo sul Golgota” presenta il disneyano Bamby contornato da coniglietti, progressivamente decomposto graficamente con un aumento della quota di rosso-sangue nella scomposizione post-cubista, fino alla discesa nel sepolcro, in corrispondenza della quale l’icona abusata ma quasi altrettanto intoccabile del cerbiattino si presenta di nuovo pulita, ora essenziale, anche se non integra, e non per ribadire moralmente il valore del sacrificio del Cristo o affermare la vita eterna delle immagini pop, ma per mostrare la consunzione di entrambi i tipi di immagine, che si scambiano le cariche emotive restando parificate nella “morte per abuso di noia”. Mentre la pulizia finale del segno riconduce ad un messaggio latente di ricostruzione, di resurrezione laica, che è quello che spinge in fondo l’artista a comunicare la sua visione del reale con mezzi artistici.
Fidia, invece, dipingendo e sagomando supporti di certo inusuali come i banchi della scuola in cui lui stesso ha esercitato, poco addietro, la sua professione di insegnante prima di vedersi vergognosamente revocato il contratto per i noti, famigerati tagli all’istruzione, ha inteso mostrare una versione attualizzata e riflessiva, persino impegnata, delle icone dell’immaginario favolistico, figure “animate” ed “educatori” delle nostre generazioni. I disegni degli allievi di Fidia che ritraggono i sette nani, personaggi di una dolcezza perduta, ora coi nomi alterati in Crucciolo, Smammalo, Rantolo, etc., vengono riproposti parzialmente scomposti con tagli diagonali e rimontati su pezzi di temi scolastici, ed infine conservati dentro il vetro di inedite teche ricavate appunto da banchetti di scuola e controbollati dal “Ministero Sarcastico Autodeliberato”, quello di Fidia (“Tagli D-Istruzione”). Il potere onirico di queste creaturine favolistiche viene così inscritto in una parodia pop-dadaista degli archivi museali, pronti per essere trasposti sul piano delle amare illusioni mai vendicate. Simile è l’operazione compiuta su banchi più grandi, del liceo, anch’essi probabilmente trafugati di notte dall’istituto scolastico frequentato dall’artista: i vecchi comics compagni d’infanzia, con gesto manipolatorio forte vengono sagomati direttamente sul legno della tavola dei banchi, e proposti trasfigurati, in modo che veicolino messaggi più consoni al clima di tragedia con cui gran parte dell’infanzia vive, nel mondo. Allora ecco Donald Duck e Goofy (Pippo) in versione scheletro nell’armadio, dipinti su tavola e visibili dietro agli squarci prodotti nelle ante di un ar-madio vintage, con in mezzo, appesa alla parete, l’ascia che ha prodotto i due varchi, con la scritta Fairman’s, ad indicare che non spetta al pompiere l’uso dello strumento, bensì all’uomo onesto che vorrebbe far chiarezza nei torbidi misteri di certe caste. Allora ecco anche il lupetto (purtroppo non ci ricordiamo il nome del personaggio originale) che ha la testa avvolta nella sciar-pa dell’Intifada, ed un mitra ad acqua di plastica verde, ma soprattutto appare sgomento: si porta una zampa al capo per aver visto sicu-ramente l’ennesimo bombardamento, di cui ha le bombe direttamente impresse sulla retina (“Beat Bad Wolf”); i personaggi delle fiabe, dimenticati, vittime di una società che sta ribaltando i suoi valori, devono forse parlare un linguaggio più esplicito per riappropiarsi del loro ruolo di civilizzatori discreti delle coscienze? David Vecchiato scrive: “D’altronde, che quel senso di responsabilità sociale e sessuale a cui molte fiabe invitano sia ora visto come un limite alla propria realizzazione economica non è certo un mistero”. Fidia, in effetti, iniziativa non nuova per lui, devolverà parte dei suoi proventi alle associazioni Emergency e Amnesty International. In questo modo acquistano un senso fattivo e materiale, una volta tanto in senso etico, delle manifestazioni comunicative che innalzano il linguaggio verso toni che, come direbbe Alessandrini, desacralizzano le residue ipocrisie di una società che “sotto-sotto”, non co-nosce vergogna. “Poison Apple” è una cassetta della seconda guerra mondiale, quasi uno scri-gno vintage, di legno, pieno di lucidissime ed invitanti mele rosse che invece sono avvelena-tissime, odiose bombe a mano, parenti adulte di quei giocattoli esplosivi che in alcuni scenari di guerra vengono sparsi sul territorio per colpire proprio quell’infanzia che è costretta sin dalla nascita a giocare tra le macerie aspettando di diventare baby-guerriglieri. E così, quale senso del pudore urtiamo quando contempliamo “Sfianca-neve”? Si tratta di uno dei banchi sagomati di cui sopra, in cui compare una Biancaneve dipinta in versione bambola gonfiabile, tenuta sulle ginocchia da un vecchio beone con un calzino solo, a cui gli occhi, nel dormiveglia, lacrimano vernice bianca, mentre la mascherina che porta sulla faccia, spostata sulla destra, è quella da Principe Azzurro, quel coetaneo nobile di Biancaneve con cui cerca grottescamente di identificarsi sfiancandosi tra uno spupazzamento gommato e l’altro. L’educazione sessuale compie infatti passi in avanti vertiginosi con la coppia “Principe Azzurro”, fallo di plastica appunto di colore azzurro con un piccolo rospo sul glande a stimolare un assai poco casto bacio, e “Fata Turchina”, una vagina celeste in resina verniciata con, infilata garbatamente dentro, l’estremità d’una bacchetta magica bianca terminante in una stella miracolosa, come se fosse quel magnete celestiale a stimolare l’unico magnetismo capace a spingere sulla retta via anche le carogne avvelenate dal miraggio del profitto. E comunque, quanto può durare l’effetto prima che “lo scavezzacollo” torni ad imba-stardirsi? Servirebbe, pensiamo, un altro Cacciatore, che reimmettendolo a pedate creepy nel mondo dell’etica, gli procurasse uno shock ulteriore, oltre a quello che ha avuto quando, abbandonata l’infanzia, s’è trovato immerso con l’immondizia sociale decidendo a torto, direi, di mimetizzarcisi.
Il_7 – Marco Settembre
arti visive, Galleria Mondo Pop, marco Settembre, martelive, martemagazine, News, roma, Serena Melandri, wAnderland