Donne: avanguardia femminista anni ‘70
[ARTI VISIVE]
ROMA- Dalla collezione Sammlung Verbund di Vienna sono approdati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (dal 19 febbraio e fino al 16 maggio) i lavori di 17 artiste che negli anni Settanta, attraverso la fotografia, il video e l’azione performativa, hanno fatto dell’arte un percorso di rottura e un atto di decisa messa in discussione del proprio ruolo e della propria identità femminile.
Un viaggio d’esplorazione in un campo in cui è soprattutto il corpo stesso delle artiste a essersi fatto principale linguaggio costruttivo ed espressivo, dal trasformista sberleffo dell’immaginario da rivista patinata (Cindy Sherman) agli scatti carichi di solitaria e angelica poesia di Francesca Woodman, dalla simbiosi con la terra e la natura di Ana Mendieta, al rabbioso e disperato terrorismo sessuale di Valie Export (“Aktionshose: genitalpanik”), fino alla riconquista e ri- significazione degli spazi del quotidiano (“Semiotics of the kitchen” di Martha Rosler). E ancora, passando dai surreali giochi di mescolamento uomo/animale di Birgit Jürgenssen, alle provocazioni nude d’un corpo intaccato da agenti esterni (Hannah Wilke), alle ambigue sembianze mascoline di Eleanor Antin, per giungere all’insolita segnaletica somatica di Ketty La Rocca, all’ironico ossessionante giocare con “l’origine du monde” (Renate Bertlmann), o infine al più dichiarato impegno contro la violenza di genere di Suzanne Lacy / Leslie Labowitz.
La riscossa e la lotta per l’emancipazione e per il sovvertimento delle forze, contro quel fascismo sessuale che individua nella donna un mero oggetto del desiderio, passa allora soprattutto per una presa di possesso del proprio corpo, modellato per iniziativa personale e non eterodiretta, attraverso una pratica del maquillage estesa all’intero organismo, dal semplice gesto di rimettere in funzione i muscoli facciali, deformandone e riformandole i tratti, al farsi a pezzi e poi ricomporsi, nel mischiarsi e confondersi criticamente con le forme accattivanti e perfette quanto stereotipate dell’iconografia femminile di massa, quella delle riviste di moda, quelle delle star del cinema e prefigurando ante litteram l’attuale imperante omologazione sessuale televisiva.
Le ipotesi di dolce o feroce vendetta verso il genere dominante maschile e verso quei passaggi obbligati come il matrimonio o la procreazione vengono declinate generando (non figli quanto) piuttosto azioni, producendo forme d’arte non conformi, scardinando gli equilibri della corrispondenza dei documenti identitari e della segnaletica umana, decostruendo criticamente le ideologie che pervadono un universo interpersonale macchiato dall’impoverimento dei linguaggi e dal loro ridursi a codificati messaggi d’ordine.
Un “femminile” costretto a trasformarsi, giungendo a volte anche a perdere la sua grazia per non essere eternamente collocato e ridotto all’alternativa Madonna/puttana. Il trasformismo del non trovarsi o dello sfuggire, del produrre uno scandalo necessario, del fare, ribadendo ancora, del proprio corpo il materiale di lavoro, il laboratorio, la superficie da indagare e vivisezionare, il segno e il simbolo, il tramite per la rinegoziazione dei rapporti e delle gerarchie, per lo svisceramento delle sovrastrutture e dei pregiudizi.
Fare sempre la stessa cosa e non essere mai la stessa persona. Ogni volta una maschera diversa, un contesto nuovo, un altro dettaglio fuori posto, una ferita dopo l’altra, lavorando su sé stesse e con sé stesse, in un infinito catalogo di donne possibili, corrodendo gli stereotipi estetici della cultura di massa, deturpando la rispettabilità dell’iconografia ufficiale, metamorfizzando con graffiante violenza il concetto volatile di identità. Burattinaie del proprio corpo e di quel che intorno ad esso si annida, le loro opere e le loro vite ci mettono in guardia su quanto sia ingannevole e contrariante ogni patinato sorriso, ogni sguardo ammiccante, ogni promessa innocente.
Salvatore Insana
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