L’autoironia, la varecchina, la dialettica e i tombini
[IL_7 SU…]
Popmatica (www.myspace.com/popmatica), non devo dirlo io, ma sono ad un livello in cui possono anche “fare tutto, farlo male” (“Meglio sbagliare”) perché una volta accorciati tutti i loro incisi in modo da non farli arrivare ai quaranta secondi, hanno ottenuto che tali incisi crunchati arrivassero al cervello e al cuore entro i primi due.
Se ho indovinato tutto dei loro retroscena, non è solo perché mi hanno fatto effetto i loro effetti spettrali, perché l’elettropop non si fa con la Lottomatica da sola, servono testi che assoggettino la volontà degli ascoltatori e fluidità da far all’occorrenza ballare il tip tap anche mentre si sta in autobus con l’I-Pod nel thermos. Impulsi chitarristici rotondi, sostegno ritmico affidabile, basso puntuale e non monocorde, Popmatica “modella il tempo come creta” ed io “In piena assenza di rumore”, “dovrei parlare di cosa?” Forse d’un senso d’inarrestabilità che promana da certe evocazioni melodiche sofisticate anche emozionalmente, assistite da arrangiamenti a cui non fa difetto nè l’arpeggio incantato nè l’incedere sicuro e sodo, misurato tra insurrezioni strumentali e cori coinvolgenti, che concorrono a comporre un muro del suono istituzionalizzato da un CD in vendita su ordinazione e su I-Tunes: “Ma come hai potuto fare tutto questo”, compreso i contrappunti? Una NewWave si può reincarnare, usando solo i suoni accattivanti e la sapienza produttiva? Direi di sì, se c’è anche lo spirito di giorni nuovi in cui tra il digitale e le nacchere… è “Tutto troppo logico”! L’unico problema risulta l’assenza non del rumore ma di divagazioni strumentali più snodate e lunghe… “non lasciarmi senza…” Ma forse ci penseranno, anche senza rinunciare al pop. Si può fare! “Mai come te” prende le mosse da una pensosità accennata con un arpeggio spray, poi si rinsalda con un colpo di reni e squaderna strofe in cui un giusto orgoglio segna le distanze da un contromodello morale: “Giuro che non sarò mai come te… sarà anche grazie alla mia autoironia che mi insegna la via”: l’apertura è ampia, dotata di grande limpidezza, ed è ben collegata allo sviluppo strumentale intermedio, segno di una maestria da Festival di San Remo (sono in lista per la selezione giovani di quest’anno) ed oltre, come testimonia anche il giro chitarristico visionario di “Assuefazione” ed il senso di sospensione che ne discende, nel prosieguo: “Guarda quante cose sembrano normali, qui…”; sono loro a farle apparire normali, ma sono timbriche molto evolute, che saziano mentre intrattengono.
Il gruppo The main attraction sostiene che la strada verso la cima è lunga, se vuoi fare del rock’n’roll, e il loro fondatore sente di poterlo affermare con cognizione di causa, perchè ha montato e smontato come impalcature gruppi, brani e progetti, prima di poter lasciare andare senza preoccupazioni la leva del distorsore. Arrivati a questo punto, quando i quattro si esibiscono, lo fanno portandosi dietro, insieme alle loro fonti di influenza, anche il ricordo delle tante identità tozze e ruvide che hanno assunto e poi licenziato senza buonuscita, e le fanno suonare tutte, idealmente, in un compendio sonoro denso da rockers sferraglianti con un’attitudine punk-rock da sbullonati dell’underground. “Broken record player” è il tributo, forse, ai loro inizi nel 2004, quando la doppia piastra si incantava ogni trentaquattro giri di nastro e poi sputava una polpetta calda! Il ritmo è liberatorio perchè ormai sono arrivati al successo, con una formazione che include un urlatore, un mod, un polistrumentista, un chitarrista 70-80, ed un Cartoonist, ma in questo brano le convenzioni borghesi sembrano irrorate di varecchina, per opera di una voce che anche senza impianti da pianto ricorda le note a mente e le mette insieme a seconda dell’opportunismo artistico, e solo se l’oste paga per il demo da mandare in playback mentre le “sgrinfie” si strappano le parrucche nel locale stracolmo scuotendo le loro bocce fino ad annoiare perfino i maniaci del bowling! “Chandra – uric breathless live version” germina da una distorsione per poi mitragliare la martirizzazione epilettica d’un infermiere col camice zebrato. La voce non ha intenzione di sopportare niente, tranne il mood puntiglioso di Chandra, che corre ovunque per tutta la città senza saper guidare e non risolve niente se non l’arricciamento dei tappetini sotto i pedali della sua ‘600 bruciata dagli zingari! Un taglio, insomma…
Le labbra di Greta non si spaccano mai, i suoi amanti se le tengono da conto come se fossero un portacenere alla Dalì, e infatti esse inducono a fumare nervosamente, con musica da salotto nelle orecchie per far di necessità virtù. Alle fondamenta dell’album d’esordio “Come si respira, come si sogna” c’è la ricerca d’una dialettica esistenziale da parte di un duo, Dario Britti (anche autore dei testi) e Stefano Barzaghi, che con meticolosità artigiana hanno imbastito con dovizia sonora e poi riccamente confezionato anche graficamente, un lavoro da musicisti esperti, che su testi pensati con tutti i sentimenti costruiscono strutture rifinite, colme d’attese e di slanci, nonchè di ossimori ambidestri. Il cantato talvolta “sospirato” di Britti è un arzigogolo recitato a teatro, e le sottolineature in controcanto di Maria Livia Nicotra offrono un acuto punto di vista femminile sugli scenari psicologici tratteggiati; ne risulta un’integrazione da caffè letterario tra ottiche eccentriche in un minuetto cerebrale misurato su arpeggi elucubrati: in “Fusione.Intensità” gli arpeggi risuonano in una stasi congelata dal riflusso temporale, tra drappeggi pesanti nella villa vuota dove restano scie di movimenti reciproci incerti in cui ci si è persi, come in “L’anno scorso a Marienbad”. Le nove tracce si giovano oltre che della Nicotra, anche dei talenti di Emanuele Bracci e Antonino Di Natale, altri due transfughi dal progetto Nemù. Le venature elettroniche sono disposte con senso della misura, e la verve rock non straripa mai dalle partiture raffinate e ben concepite. Le ambizioni di stampo post-rock sono elevate ma ben riposte, ed il loro dissimulato snobismo si incontra con l’accattivante formulario new wave, per un risultato avvolgente che include nell’afflato poetico contemporaneo e sperimentale anche il feedback emozionale dell’ascoltatore attento, facilmente sopraffatto dalla seduzione onirica di questo respiro irregolare, che dà fiato ai paradossi delle aspettative e del desiderio.
Fonderia Romana prende il nome dalla destinazione d’uso originale dei locali che oggi costituiscono la base operativa della band, e si dà il caso che orde di invasati amanti dello sballo intelligente e irresistibile vadano affollandosi per tutta la città, nonostante il traffico, attorno ai tombini marchiati col logo della celebre fonderia siderurgica, nella speranza, non sempre disattesa, per la verità, di vederne uscir fuori, portati da una rete alternativa di condotti sotterranei, quei suoni, quei ritmi e quella vocalità industrial ma light, dietetici, che caratterizzano l’appeal sonoro di questa formazione a forma – appunto – di macinino in azione. Sì, perchè questi signori non operano da operai, ma neanche fanno i signorotti coi colletti inamidati, bensì squagliano ammassi di strumenti duplicandone le note con il dub e smus-sandone gli spigoli, poi fanno roteare tutto all’altezza delle orecchie soffiandola poi con il ritmo dentro quei cervelli che sono incancreniti in deliri prosaici, restituendogli una sorta di linfa bio-sonora vitale. Questo crogiolo di sfumature infatti libera dimensioni che diventano condivisibili, una volta entrate nell’anima come musica fusa, la cui fluidità avvolge come uno strato geologico fatto di polpi alla menta. A partire dalla batteria, puntuale e non invasiva, e dal basso, pervasivo e non banale, troviamo tutta un’effettistica te-chno-funky da guazzabuglio propositivo e non anti-costituzionale, plasmato ma non irreggi-mentato, eruttivo e non larvale. Una groove factory che intruglia i capelli di Jamiroquai con mar-mellata di fichi e porta a spasso i Subsonica su autocarri col gancio per il traino di fette formi-colanti d’ignoto. La loro strumentazione, funambolicamente proporzionale alla loro capacità tecnica, imbarazzante per alcuni liutai, immagino sia stata consolidata dopo i notevoli successi raccolti a casa dei Kraftwerk mentre James Brown si faceva du’ spaghi. Di fil di ferro fumante! E non sono solo “Viaggi di mente”.
Il_7 – Marco Settembre
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