Amleto o del non essere
[TEATRO]
ROMA- L’Amleto di Armando Pugliese ha salutato il pubblico romano del teatro Quirino lo scorso 7 febbraio. Prossima e ultima tappa della tournée per la compagnia KHORA.teatro sarà Bergamo.
L’impresa del regista è audace: un testo sacro impreziosito dalla traduzione italiana di Eugenio Montale, un cast di attori esperti accanto a giovani belli e conosciuti, musiche dei Massive Attack da amalgamare ad una tragedia che vive da quattrocento anni.
Quando il sipario va su, una scena buia lascia filtrare un raggio lunare sul letto di ospedale in cui riposa, in un sonno tormentato, il principe di Danimarca (Alessandro Preziosi). Seduto nell’ombra il fedele amico Orazio (Marius Bizau) è insieme ad Amleto testimone dell’apparizione del fantasma del vecchio re ucciso dall’usurpatore del regno. La presentazione del personaggio allude chiaramente ad uno stato di pazzia, con il letto di ospedale e un Amleto in pigiama bianco che sa di manicomio.
La tragedia inizia in media res, dalla rivelazione che fa scattare l’azione, o meglio, dovrebbe. Tutta l’opera, è arcinoto, ruota intorno all’esitazione del giovane che vorrebbe vendicare l’oltraggiosa morte del padre, ma che, assalito dal dubbio, non riesce a trasformare la volontà in azione. È l’intelletto di Amleto stesso il grande ostacolo: egli è preda del suo fine ragionare che si annoda imprigionando la decisione di agire. Sebbene il protagonista non riesca a realizzare i suoi propositi, il personaggio concepito da Shakespeare è tutt’altro che piatto o inetto, anzi, è il ritratto fiero di ciò che l’uomo è, un vortice di emozioni, passione e ragione che se ne combattono il controllo.
Purtroppo la versione di Preziosi è un Amleto che non arriva al cuore. La sua recitazione, pur mantenendosi ad un buon livello che rivaluta la versione televisiva, non ha la capacità di entrare nel profondo del personaggio. Il pubblico assiste, ma non partecipa, perché l’interpretazione di tutti sembra restare confinata alla parola, dunque fuori dagli attori. Vengono costruiti personaggi che non si incarnano mai in uomini. I dialoghi sono condotti a perfezione, ma si avvicinano ad un manierismo con poca passione. Anche Ofelia (Silvia Siravo) lascia perplessi. In scena sembra di vedere un’adolescente che sbuffa contro i richiami del padre, il ridicolamente verboso Polonio (Ugo Maria Morosi, senza dubbio il migliore in scena) e che siede scomposta gesticolando. Più convincente, invece, quando è vittima della sua dolce e struggente pazzia, quando si trasforma in bambina che riempie l’aria di ghirlande floreali e filastrocche. Gli stessi difetti si ritrovano nei restanti personaggi, per cui la regina Gertrude (Carla Cassola) non lascia affatto avvertire la lacerazione che pure dovrebbe vivere, e il re usurpatore Claudio (Francesco Biscione) non sembra nemmeno appartenere al mondo degli altri, quasi gli avvenimenti non riguardassero le sue sorti.
Ciò che invece lascia molto colpiti è l’ambientazione scenica. Un pannello scuro sul fondo scorre lasciando intravedere paesaggi formali o appena percepibili. Mobili austeri e moderni contrastano felicemente con i costumi seicenteschi, sontuosissimi. Gli attori stessi se ne servono per creare di volta in volta spazi diversi, per cui dalla camera della regina, o dalla sala del castello si passa al cimitero dove un vecchio becchino si burla del teschio di Yorik, il buffone di corte amato da Amleto. Il gioco di luci unito alle musiche dei Massive Attack riescono a riempire l’aria di quel pathos che non arriva a sufficienza dai personaggi.
Nella sua totalità lo spettacolo è buono senza impressionare: proprio come il principe di Danimarca le sue potenzialità restano inespresse e, tra l’essere un flop e il non essere un opera memorabile, si rivolge decisamente verso quest’ultima interpretazione.
Francesca Paolini
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