“La musica indie? È filosofia morale”
Si chiamano “Any Other” e il 18 settembre hanno pubblicato il loro primo album, dal titolo “Silently. Quietly. Going Away”. La formazione è composta da tre elementi: due ragazze e un ragazzo. Niente di più semplice dal punto di vista musicale: basso, chitarra e batteria. Però sorprendono, rilassano e regalano un flashback di qualche decennio, quando il grunge invase il mondo e senza volerlo lasciò una traccia violenta nell’adolescenza di una generazione. Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma il primo ascolto di questo disco è già una folgorazione, quasi una speranza nell’omologazione generale.
Abbiamo intervistato la frontwoman della Band, 21 anni, studente di filosofia, ex componente delle Lovecats. Si potrebbe ascoltare la voce di Adele Nigro, la cantante, quotidianamente, senza rischiare di annoiarsi; perfettamente cullata dal basso e dalla batteria, nella legittima ruvidità della gioventù. In meno di 3 mesi dall’uscita dell’album hanno già calcato decine di palchi con soddisfacente riscontro di pubblico.
Un consiglio: andate ad un loro concerto.
Domanda canonica, perché Any Other?
Il nome è nato a seguito di una ricerca che abbiamo fatto io ed Erica, cercavamo un nome che ci piacesse sia dal punto di vista grafico che sonoro; e quindi abbiamo scritto una serie di parole che ci piacessero in questi termini. Alla fine abbiamo trovato questa accoppiata che in realtà è anche il riferimento ad un disco che ci piace molto, “Any other City” dei Life Without Buildings. Ci piaceva anche il fatto che nel significato del nome ci fosse anche un senso di indeterminatezza, che non fosse qualcosa di definito al 100%, tutto un po’ ambiguo.
Quali sono le cause che hanno portato alla fine del progetto “Love Cats”?
Fondamentalmente avevamo interessi diversi. Il mio primo obiettivo era quello di suonare, ma non era così per Cecilia, l’altro membro della band.
A settembre avete pubblicato il vostro primo album per Bello Records, “Silently. Quietly. Going away”, se dovessi scegliere il brano più rappresentativo quale sarebbe?
Una sola canzone? Sono indecisa. Ne ho due: “Something” (la traccia di apertura) e “To the Kino again” (l’ultimo brano). In entrambe c’è il desiderio di riscatto verso il mondo esterno.
Io preferisco “Roger Roger, Commander”…
Roger Roger parla della mia storia personale, della mia famiglia; solo che non mi andava di scrivere certe cose in maniera esplicita, per tale motivo, in questo brano, utilizzo molte metafore. È una canzone attraversata dal pensiero “Ok basta, ci sono delle cose dannose che devo sradicare dalla mia vita”.
L’essere donna ha rappresentato una difficoltà a inserirti nel mondo della musica?
Ci sono delle difficoltà, ma non è una difficoltà di inserimento. Non abbiamo riscontrato problematiche di genere. Diciamo che ci sono dei problemi oggettivi a livello di sessismo. Siamo stati fortunati nel trovare un’etichetta come Bello Records, la quale ha creduto in noi. Certo, in alcuni casi le persone si prendono delle libertà dovute al fatto che sono una ragazza: apprezzamenti fisici, frasi moleste oppure una disparità di trattamento ad esempio quando si tratta di fare un sound check. È capitato di arrivare in un posto, io chiesi dove potevo mettere il mio amplificatore per microfonarlo e il fonico non mi ha nemmeno guardato in faccia. Lui è andato da Marco (il bassista della band ndr) a chiedergli cosa dovesse fare con il mio amplificatore, ma parlane con me no?
Tu studi filosofia vero? Se dovessimo accostare la musica indie alla filosofia, con quale movimento filosofico o filosofo la identificheresti?
Mi viene in mente Judith Butler, i suoi studi si concentrano sulle problematiche legate al genere, e alle discriminazioni di tipo sessista. Tali aspetti appassionano molto sia me che Erica (la batterista). Per quanto riguarda una branca della filosofia, potremmo considerare la musica indie come la filosofia morale.
Ma perché avete deciso di pubblicare un album in inglese?
Bè, perché no? Io ho sempre scritto canzoni in inglese e quello che ascolto è per il 99% cantato in inglese, per me viene naturale. Inoltre, nella prospettiva di uscire dall’Italia, farlo in inglese è la cosa migliore.
E quindi, quando farete un disco in italiano?
Non lo faremo mai! Per quello che mi riguarda i testi mi riescono meglio in inglese. Avevo provato a scrivere qualche canzone in italiano ma il risultato è stato veramente pessimo.
È vero che la tua generazione è composta per gran parte da bamboccioni?
Non è assolutamente vero! Ci sono tante persone che si impegnano e cercano di essere indipendenti nel migliore dei modi.
Riguardo quello che è successo a Parigi il 13 novembre 2015. I media, le istituzioni, hanno sviluppato la narrazione partendo dal fatto che tali tragedie, rappresentano un attacco al modo di vivere occidentale. Come se nelle altre parti del mondo, ad esempio in Siria o nel Medio Oriente in generale, alle persone non piaccia andare ad un concerto, al ristorante, ad una partita di calcio. Come consideri tale rappresentazione della realtà?
Credo si debba stare molto attenti nel fare discorsi di questo tipo, perché non fanno altro che allontanarci l’un l’altro. Non bisogna generalizzare e cadere nel razzismo. Quelli che fanno parte di un’altra cultura sono nostri fratelli.
Ti piacerebbe partecipare ad un Talent?
Non mi piacerebbe assolutamente, mi è già stato proposto più volte ed ho sempre rifiutato. Mi fa schifo l’idea di farsi conoscere in quel modo. Mi sembra assurdo che una persona che ha a cuore la musica, sia disposta a mettere in mano se stessa in contesti del genere, senza nessuna libertà artistica.
Come immagini il tuo futuro?
Sogno il mio futuro suonando 7 giorni su 7, ancora a scrivere canzoni, a registrare con Erica e Marco. Spero di farcela insomma.