“Venice Beach”, la scommessa di Salmo
“Abbiamo fatto volare Salmo ai Red Bull Studios di Los Angeles e gli abbiamo dato 24 ore di tempo per produrre, scrivere e registrare un pezzo insieme al relativo video” – Red Bull
Un giorno solare di tempo, quasi 10.000 km da percorrere e un’impresa quasi disperata come obiettivo: realizzare integralmente un brano con il relativo videoclip.
Più che una sfida da “Scommettiamo che…” si tratta del progetto realizzato da Salmo, rapper italiano tra i più conosciuti e apprezzati del nostro panorama musicale, per il brano “Venice Beach”, singolo pubblicato il 2 settembre 2014 e che successivamente è entrato nella tracklist di “Machete Mixtape Vol. III”, album collettivo firmato dalla Machete Empire Records e che raccoglie il meglio della scena rap attuale (Fabri Fibra, Clementino, Ensi, Mondo Marcio, Nitro, Bassi Maestro, Noyz Narcos e tanti altri).
Cos’è Venice Beach? È la spiaggia di Venice, il quartiere ovest di Los Angeles, il progetto urbanistico di tipo turistico creato con l’intento di ricreare appunto Venezia, con uno stile kitsch che ai più farebbe venire in mente la stessa identica parola: “un’americanata”. Palazzi rinascimentali, canali, opere di Frank Gehry che si mescolano a giocatori di hockey a rotelle, bellezze statuarie sui pattini, artisti di strada e seguaci di filosofie orientali.
La palla ora passa a Salmo: nel testo le citazioni al panorama culturale americano si sprecano, dal Bernie Lomax di Weekend con il morto a Mitch Buchannon di Baywatch, da Marlon Brando all’obamiano “Yes we can”, fino alla BMX con la quale lui stesso attraversa Venice Beach durante il videoclip. Le immagini lo vedono rimbalzare (sempre nell’arco temporale della stessa giornata) tra batterie, chitarre, microfoni e mixer dello studio di registrazione e il lungomare di Venice Beach, un pot-pourri di persone, culture, cose…
È l’idealizzazione di un immaginario che sta alla base della cultura hip-hop, un richiamo costante e continuo a quella mole di oggetti, elementi, simboli che la cultura popular (specialmente quella americana) ha generato nel cosiddetto “secolo breve”: nessuna paura di sporcarsi le mani (o il grado di artisticità) utilizzando per la propria musica elementi che potrebbero essere visti come consumistici, nessun timore a realizzare un’opera d’arte (o un prodotto) musicale con una tempistica impensabile per la maggior parte degli attuali generi musicali, nessun problema soprattutto a lavorare “su commissione” per una multinazionale (cosa che potrebbe essere controproducente per quella che fino a poco tempo fa poteva ancora essere considerata una sottocultura).
E allora si, il paragone che potrebbe venire in mente è quello con le Avanguardie del Novecento, Pop Art in primis, grazie alle quali ciò che veniva considerato solo prodotto con una funzione pratica poteva essere rifunzionalizzato in maniera artistica: ciò che fa la cultura hip-hop è anche questo, riprendendo tutta una serie di elementi che la cultura ufficiale (ancora oggi) tralascia e attribuendole un grado di verità. È questo uno dei motivi per i quali anche nel nostro Paese gli artisti hip-hop hanno, da diverso tempo oramai, conquistato un consenso sempre più diffuso.
I numeri lo testimoniano, infatti: a 6 mesi dall’uscita, Venice Beach ha totalizzato circa due milioni di view su Youtube e se per qualcuno la quantità non può essere ricollegabile alla qualità, vediamo come la penserebbero sui Beatles e i loro 500 milioni di dischi venduti…