L’esasperato “altrove” di Costanza Macras
[DANZA]
ROMA- La coreografa argentina, considerata attualmente erede del teatro-danza e della sua superba e indimenticabile fondatrice Pina Bausch, ha trovato una strada decisamente efficace per differenziarsi dalla tradizione, se già si può dire cosi, del tanztheatre tedesco.
Lei comunica ciò che vuole con schiettezza ed ironia, pensando che forse per resistere nell’amaro e comico mondo non ci resta altro che ridere. In Berlin, elsewhere, come del resto nei suoi lavori precedenti emerge, il bisogno di gridare ciò di cui parla, quasi come se volesse essere certa di farsi capire. Si lancia a “tutto tondo” utilizzando il movimento, la musica live, le videoproiezioni, i dialoghi e la scenografia, in una denuncia i cui ingredienti sono le malattie urbane e i disturbi psichici che ci “regala” il vivere quotidiano della cara vecchia civiltà capitalistica occidentale.
E’ il vissuto personale dei dieci interpreti ad essere protagonista della performance grazie ad un lavoro psicologico e d’improvvisazione del movimento, che crea una partitura danzata parlante il linguaggio dei brutti ricordi. I movimenti che vediamo sono volutamente sporchi, irriverenti, esasperati nell’ampiezza e traslati a strumento caratterizzante di una storia. Ci troviamo di fronte così ad una danzatrice estremamente snodata, usata come bambola di piacere dagli uomini, oppure a una donna anziana consapevole di non piacere più causa l’avanzare del tempo.
Ogni danzatore esterna, tramite il movimento e le parole in lingua originale, tutte le esperienze che ci fanno pensare: “ma perché sono venuto al mondo?”.
La rosa degli esempi considerati continua vorticosamente: si passa da una barbona che lotta per racimolare cianfrusaglie raccolte per strada, al divo stanco di essere tale, al danzatore non adatto a proseguire la carriera del ballerino classico che si accontenta del poco che madre natura gli ha regalato. Ecco allora che la coreografa svolge il ruolo di comporre e ordinare i pezzi di un puzzle emotivo fornito da chi lo interpreta.
Macras ci mostra persone non ascoltate, emarginate che hanno bisogno di denunciare ad alta voce e, se possibile, con un sorriso amaro sulle labbra, la società.
Collegate da videoproiezioni, musica e parole le storie personali si intrecciano e si danzano quasi come se ogni interprete potesse essere il confidente dell’altro. Ecco perché sia i momenti di amarezza che quelli di forte rabbia vengono sussurrati o urlati a squarciagola da tutti e da nessuno, consapevoli di essere sulla stessa barca, a volte soli, a volte in gruppi d’attacco ad un nemico che è tanto invisibile quanto profondamente radicato in ogni uomo.
Siamo di fronte ad una scena fastosa, dirompente, dissacrante soprattutto nei materiali e nei colori che utilizza. Vediamo grattacieli di gommapiuma, spostati da abili danzatori tecnici e colori abbaglianti di indumenti e oggetti che continuamente divengono protagonisti del palcoscenico, intervallandosi con gli esseri umani che arrivano persino ad avere le sembianze degli stessi oggetti.
Caos scenico è la maggiore critica che viene fatta dopo un suo spettacolo, personalmente dico che questo significa semplicemente mettere in scena il riassunto del nuovo millennio occidentale in poco meno di due ore. E’ proprio l’esagerazione del caos che la differenzia dai suoi predecessori e la danza ne è lo strumento di punta.
Un vortice dinamico ci dice che la vita è troppo scomoda da vivere, perciò la partitura di movimento è violenta, fa fisicamente male a chi la esegue. Ci sono momenti in cui regala un porto sicuro al corpo stremato dei suoi danzatori ma in questi ecco la violenza emotiva: penso al richiamo orgiastico che si svolge sul comodo lettone gonfiabile che arreda la parte centrale della scena, oppure alle parole dell’attrice che, in un comprensibilissimo inglese, si alterna tra l’essere personaggio e l’essere narratrice delle vicende.
Pezzi d’insieme ma non solo danzati, anche cantati, rivolti in fila verso il pubblico, come se un esercito di uomini volesse chiedere allo spettatore, già impegnato a digerire ciò che sta vedendo, una risposta al malessere cosmico che così bene ci attanaglia lo stomaco.
Nell’intervista dopo lo spettacolo la stessa coreografa ci racconta la sua scelta a proposito del titolo: “Berlino ci porta altrove, ci contiene ma è anche il luogo in cui si vive comodamente insieme ai propri problemi senza che l’involucro esterno sia un peso estenuante”.
Interessante leggere “questo pezzo non è su Berlino” come prima frase proiettata sulla parete posteriore del palco all’inizio del lavoro. Qui lei, osservando il vivere quotidiano, come insegnava la grande Pina, ha potuto partorire Berlin, elsewhere, incerta della possibilità di poterlo creare in qualsiasi altro posto. Del resto a chi la capitale tedesca non è risultata accogliente ed aperta alla vita di un turista che si sofferma per qualche giorno o di un artista che spera di trovarvi il paese del bengodi? Forse è proprio a Berlino che si può pensare di capire qual è il proprio posto nel mondo.
Costanza Macras utilizza lo spazio performativo e la geografia emotiva delle persone con cui lavora come strumento di verità e riesce a comunicarlo al suo pubblico che, totalmente scomodo e spaesato, dopo qualche riflessione a tu per tu con il proprio io, realizza che questa sensazione è il vivere.
E’ un circolo senza via d’uscita, in cui l’idea del quotidiano urbano ci dice follia, esasperazione e povertà, non solo morale. E,’ in fin dei conti, ciò che ci aspetta dietro la porta di casa.
Giovanna Rovedo
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