C’era una volta… Anna Terio
Incontro Anna Terio per la prima volta al Teatro Quirinetta dove è in scena Battiston e lei fa la maschera. Subito mi colpisce per quella sua aria pulita, da brava ragazza. Completo scuro, capelli biondi raccolti in una coda, pelle liscia e bianchissima. Ma, soprattutto, per i suoi occhi scuri che ti guardano sempre dritto e si illuminano quando le domandi se era lei, in una passata rappresentazione, in Grimmless di Ricci Forte…
Il 24 e 25 aprile sarai di nuovo in scena con questo spettacolo, al Palladium di Roma. Da quanto fai parte della compagnia e come ti sei approcciata a questo modo di fare teatro, tra i più trasgressivi e sperimentali che ci sono oggi in Italia?
Lavoro con Ricci/Forte da cinque anni. Ci siamo incontrati, annusati, e mai più lasciati. Un colpo di fulmine reciproco. Posso romanticamente dire di essermi vista attrice per la prima volta attraverso gli occhi di Stefano e Gianni, tanto da decidere di lavorare esclusivamente con loro. Fino ad allora la mia esperienza teatrale era inesistente, o quasi. Ho sposato con entusiasmo la causa, e le sono fedele. Anche se chiaramente non è sempre facile, continuo con amore a rinnovare la mia promessa. Come potrei non farlo? Il mio caotico immaginario prende vita e luce grazie all’alfabeto del loro linguaggio. Non capita tutti i giorni. Non considero il nostro teatro particolarmente trasgressivo, lo chiamerei semmai onesto, e necessario. Direi senz’altro differente. Ma da cosa, poi? Da chi? Sperimentale cosa significa poi davvero, in fondo? Nulla, secondo me. Le definizioni sono sempre qualcosa di buffo, presuppongono un confronto, come se un modo non avesse esistenza propria anche a prescindere dal resto dei modi.
Un percorso segnato dai tuoi studi o una svolta improvvisa?
Direi il mio Once upon a time.
Il tuo primo amore rimane però il cinema, con la Scuola Nazionale di Cinema di Roma prima
e il Centro Sperimentale di Cinematografia poi. Quando hai scoperto il teatro?
Sì, è vero, da brava kamikaze io ho deciso di voler fare questo lavoro perché sognavo il cinema. Lo sogno ancora, mi piace infinitamente di più del teatro. Sia da pubblico che da interprete. Non credo alla banalità che il vero attore si veda a teatro. Un vero attore è in grado di sedurre con qualsiasi mezzo. Certo, il cinema è pieno di trucchi, per cui in effetti mentre per fare un film essere attori non è indispensabile, a teatro si capisce subito che tipo di animale hai davanti.
Tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale non sono molti i punti di contatto, e quegli attori che praticano entrambi dicono spesso di preferire il secondo al primo. Alla luce dei tuoi esordi, in quale dei due più ti riconosci?
Purtroppo io a teatro non sono una brava spettatrice, mi annoio facilmente, mi distraggo, mi perdo nei dettagli dal vivo, non sono in grado di fare la regista del mio sguardo, mi sento abbandonata. Sono spietata, intransigente, sincera, maleducata, e non mi piace quasi mai niente. Divento ribelle forse perché in fondo risento dell’essere poco colta, teatralmente parlando… Come attrice forse semplicemente mi sento inadeguata: il teatro ha quel suo vocabolario, quel suo galateo, mi sembra sempre di dover chiedere il permesso. Il cinema mi sembra una via più democratica, più accessibile. Al cinema stacco completamente col mondo fuori, da spettatrice, e poiché mi sento guidata, riesco ad abbandonarmi. Da attrice invece amo il cinema perché mi piace fare poco. Non per pigrizia, sia chiaro, ma perché mi piace raccontare qualcosa assomigliando il più possibile alla vita reale. È questa la mia ricerca.
È anche vero che il linguaggio – fisico come parlato – di Ricci Forte è dei più violenti e per niente scontato. Al di là della tua prova di attrice, quanto fa parte questo estremismo del tuo personalissimo dizionario?
La prova di attrice da sola non basterebbe a farsi piacere la violenza. La trasgressione esercita un potentissimo fascino su di me. È una venatura del mio tipo di sensibilità.
In Grimmless ti troviamo in una fiaba senza idillio, un mondo archetipico fatto di suggestioni letterarie e un presente in rovina. Qual è la tua interpretazione di questo pezzo, ricalcato sul disfacimento del fantastico dei fratelli Grimm?
La mia Biancaneve sono io…
E il tuo rapporto con le favole?
Bulimico. Continuo a raccontarmene.
Veniamo alla concezione del dolore. A teatro, come nella vita, ne esistono di varie forme. Cosa vuol dire, per te, indossare i panni dell’antieroina? Assistere, sotto gli occhi del pubblico, alla degradazione del corpo?
Credo fermamente che la profonda conoscenza del dolore, unita alla capacità di trasformarlo in qualcos’altro, sia l’ingrediente principale della recitazione. Il dolore è energia pura.
Ad oggi, l’arte è ancora una forma di riscatto o specchio opaco del mondo che porta in scena?
Mi auguro che il mondo guardando se stesso attraverso l’arte veda un gigantesco Ritratto di Dorian Gray. L’arte che sa esasperare è più efficace. Forse.
E nei testi di Ricci Forte? Perché questo mondo appare addirittura peggiore? Come se in Biancaneve lo specchio della matrigna, seppure in frantumi, non costituisse di per sé il lieto fine.
Dici peggiore? Secondo me siamo solo impavidi e colorati nel gridare che il Re è nudo.
In questo tipo di teatro, più che altrove, il corpo si fa strumento. Corteccia esterna da intagliare per accedere a un mondo segreto fatto di attese e paure. Prima di andare in scena, quali sono le tue?
Hai presente il bello della diretta? Io lo odio. Non so, il the show must go on? Niente più di una grande canzone, per me. Io non mi sento una bestiolina da palcoscenico. Col tempo ho un po’ imparato a trasformare i miei punti deboli in punti di forza ma non sempre ci riesco. Oltre alla perenne paura di infortunarmi, oltre ad avere la perenne sensazione che il mio stile (voce, ma anche a volte interpretazione) sia troppo minimal, o la mia presenza troppo ingombrante da gestire, c’è dell’altro: in scena ho il terrore degli imprevisti. Anche le più piccole cerniere, se per qualche motivo cominciano ad incepparsi o a chiudersi diversamente dal previsto, mi paralizzano! I miei colleghi lo sanno bene. Annaspo, come se da sub sott’acqua mi avessero tolto l’ossigeno, emergo in superficie e mi guardo dall’esterno, è terribile. E soprattutto, m’infurio, e finisco col portarmi dietro la rabbia fino alla fine della performance. Vorrei fermare tutto e dire no scusate, non è giusto, non era così, era altro. Vorrei un altro ciak, e naturalmente non si può. Sono poco professionale, vero? (ride) Ciò che davvero trovo eccitante è semmai il contrario, il brivido da esecuzione perfetta: è tanto rara quanto adrenalinica! Eccola, la magia. Ed è quella che secondo me bisogna cercare di compiere ogni santa volta, non nell’arrivare sani a salvi agli applausi. Non per niente in Grimmless siamo forniti di bacchette magiche. Ma i fattori che incidono sono infiniti…
Poi, c’è l’anima. Quella che in Grimmless si fa da subito cupa e quella – intesa come impegno – che ci metti per prestare ai personaggi la tua. In questi, cosa c’è, davvero, di Anna Terio?
L’ingrediente principale sono sempre io, è chiaro. Ho abbastanza materiale umano dentro e me ne servo con libertà. Ogni volta devo decidere cosa inquadrare, e poi zoommare su uno dei miei microcosmi. È divertente ma allo stesso tempo massacrante. Per non soccombere rifinisco il tutto con una lunga serie di dettagli che invece rubo. Ma non posso dire dove. Metodo Terio (ride).
Cosa ti auguri da qui ai prossimi anni? Se ti fosse concesso di scrivere la favola della tua vita, lasciando immutato l’inizio, di cosa riempiresti i capitoli a venire?
Siccome tutto quello che ho è stato guadagnato e sudato con lacrime e sangue, mi auguro un po’ di fortuna. Una pentola di monete d’oro sotto l’arcobaleno. Mi auguro una strada leggermente meno in salita di quella che ho percorso finora, non dico in discesa, ma almeno un pochino in pianura. Mi auguro di recitare in nuovi film italiani belli come quelli americani – è così tanto di moda dire che l’Italia fa schifo! Io amo l’Italia. Non si nasce in un posto per caso. Ma soprattutto, mi auguro che il bello debba ancora venire.
Grazie Anna, e in bocca al lupo.
Crepino i lupi (altro che a rischio estinzione!) che non smetterò mai di temere. Da brava antieroina.
Matteo Mastrogiacomo
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