Se fosse questa, la speculazione!
[TRIP: NOTE DI VIAGGIO]
La mostra collettiva Speculative, allestita al LACE-Los Angeles Contemporary Exhibitions, dal 16 Giugno al 28 Agosto 2011, é da considerarsi un prodotto di quel periodo, allegramente segnato da crack finanziari, licenziamenti a catena e catastrofi ambientali, olè! Ma stoppiamo subito la catena della nostalgia, perché anche oggi, se solo volessimo tirarci su con queste amenità, avremmo l’imbarazzo della scelta, tra crisi, catastrofi nautiche e primarie palermitane del PD mezze truccate.
A metà dell’anno scorso, l’1% del mondo, quello che specula molto materialmente e poco filosoficamente sulle flessioni del mercato, tentava di occultare, grazie al taroccamento operato dai network mainstream, le voci di protesta che si levano ormai da decine di piazze americane occupate, e pensiamo soprattutto a Liberty Plaza, adiacente a Wall Street (https://occupywallst.org/), e perlomeno ci consolava sapere che ci fossero artisti, ricercatori, e designers che si ponevano domande cercando di proiettarsi in scenari futuri.
I curatori della mostra Zach Blas e Christopher O’Leary, avevano messo insieme appunto un gruppo di artisti e designers – per lo più ex studenti provenienti dal dipartimento di design e arte mediale dell’UCLA – che utilizzano strategie ed estetiche derivate dalle tradizioni della science-fiction, del design speculativo, e delle pratiche situazionistiche, al fine di denunciare le disfunzioni del contemporaneo e provare ad ipotizzare strategie di uscita alternative.
Nel catalogo della mostra il nostro bel pianetino viene presentato come un posto invivibile, funestato dalla crisi economica globale ma anche da diverse forme di odio e controllo, diviso da frontiere e gabbie ed inquinato dalla mercificazione di diverse dimensioni del reale, ma al contempo viene dato pronto ormai ad una qualche palingenesi. E ci preannunciano questi sviluppi l’azione di gruppi militanti come The Invisible Committe (autori del testo The Coming Insurrection, ma anche le proteste studentesche, la primavera ara-ba, l’attivismo di WikiLeaks e Anonymous. Citiamo direttamente: “Quella speculativa é una forza unificante che accomuna i lavori in mostra e che evoca il potenziale del mondo che vogliamo, al livello politico, culturale, sociale, sessuale, tecnologico, biologico, economico, ecologico”.
Quasi tutte le opere in mostra erano di fresca produzione, e variavano molto per tecniche, stili, e approcci. Tra quelle più tipicamente “situazioniste” per stile e linguaggio, c’é sicuramente il lavoro di Casey Alt, un artista che investiga sul modo in cui le interfacce informatiche mediano potere e cultura: centrale nella sua visione è la sarcastica critica al design commerciale come strategia dominante di ingegnerizzazione del con-trollo sociale.
In Slightly Sociopathic Software (Software leggermente sociopatico, 2007), Casey Alt usa la tattica estetica del detournement per mettere in risalto le aberrazioni (psico)sociali e schizofreniche che emergono dal detestabile connubio tra etica corporativistica e uso amorale dei social network: Alt inventa un brand fittizio, VacilLogix, la cui mission consiste “nel favorire la sociopatia, una delle spinte primarie della evoluzione umana”. In questo modo, il peggiore effetto collaterale della comunicazione in rete tra presunti peers “orizzontali” viene esplicitamente eletto a scopo primario e funzionale al sistema. Inoltre, secondo i (fittizi, per fortuna) ideatori di VacilLogix, “il modo migliore per fare profitto é contribuire con soluzioni inno-vative a profondi problemi culturali (…) Ma noi vediamo queste sfide quasi insormontabili come incredibili opportunità di profitto. (…) fin da quando ci sono stati social network, c’è stata anche la sociopatia”. Un altro scopo dell’uso perverso del social network è “aggirare norme sociali”. La compagnia produce quattro killer-application che “ti permettono di avere quell’attitudine sociopatica che ti porta al successo”: Deceptionist , EntitlementManager, StalkBroker e StatusGuard.
Di una matrice simile, ma molto meno situazionista, é il lavoro Material Evidence (2010) di Claudia Salamanca – http://www.laclaud.com/?p=116 – un’artista colombiana dottoranda di ricerca al Dipartimento di Retorica a Berkeley. Sia negli studi teorici che nella prassi artistica esplora le relazioni tra l’idea di morte e il corpo. In questo Prova Materiale, la Salamanca sfrutta un video-documento prodotto dal Gruppo di Inve-stigazione Tecnica del Governo Colombiano, in cui si può seguire una procedura di identificazione standard effettuata da un poliziotto. La Salamanca ha alterato il video introducendovi un elemento disturbante, una sorta di “buco nero” che si sposta all’interno del frame.
Lasciando la problematica delle strutture di potere, troviamo il lavoro di Pinar Yoldas, artista di origine turca, laureata all’UCLA nel 2009 che si interroga sul rapporto uomo-ambiente. Il suo progetto SuperMammal, NeoLabium and other species of excess (2011) – http://pinaryoldas.info – consiste in una serie di artefatti, specimen, campioni da far raccapricciare i più sensibili, inseriti in piccoli vasetti trasparenti da labo-ratorio chimico, le cui forme e fisiologie bizzarre sono ispirate da possibili future mutazioni delle tecniche riproduttive di Madre Natura, operazione vista dall’artista come “escursione biogenetica sul futuro del desi-derio, della sessualità e dell’intimità”. In particolare, SuperMammal mostra una proliferante simmetria radiale delle ghiandole mammarie, MegaMale consiste in un arrangiamento lineare ma diremmo irto di peduncoli dalla forma ispirata ad organi maschili, e NeoLabium è composto da livelli di labia minora sovrapposti in modo esponenziale, tale da poter potenzialmente espandersi e crescere all’infinito. In precedenza la Yoldas aveva creato la serie Fabula (2009) che consiste in una serie di pseudo-creature mutanti, ancora in con-tenitori di vetro, accompagnate da disegni e foto; per concepire queste forme di vita fittizie ha preso spunto dalle famigerate “isole di spazzatura sommerse” che vagano negli abissi dei nostri oceani, e ha immaginato le possibili mutazioni che possono generarsi dalle interazioni della fauna marina con tali habitat artificiali. “rendendo intenzionalmente indistinguibili le differenze tra maschio e femmina, microbo e umano, organico e sintetico, Fabula provoca e accentua la presa di coscienza del proprio corpo, in particolare rispetto alle problematiche di sessualità e mortalità”, ha dichiarato l’artista.
Anche Zach Blas affronta tematiche quali corpo e sessualità, anche se con una estetica e approccio completamente differenti. Blas, costantemente intrigato dalle dinamiche tra new media, politica e queer studies, espone un progetto che lo ha impegnato per quattro anni: Queer Technologies, articolato in una se-rie di applicazioni, strumenti e soluzioni tecnologiche mirate all’attivismo queer. Il set vuole dunque essere una sorta di critica “ad alto valore finzionale” delle tecnologie di comunicazione esistenti e del carattere eteronormativo, capitalista e militarizzato che tali tecnologie hanno finito per acquisire. I “prodotti” usciti dal brand si connotano come strumenti suggestivi a supporto di chi ha un’identità sessuale, diciamo, non scontata: Facial Weaponization Suite & Fag Face Masks é un insieme di tools che aiuta gli utenti a falsificare i controlli biometrici sui propri volti e di conseguenza generare falsi dati. Sono comprese una serie di maschere, da indossare ad esempio di fronte a dispositivi di sorveglianza, per “anonimizzare” il proprio volto, rendendone inefficace la decodifica biometrica. Utile in caso di missione da Necromancer, per dirla alla William Gibson. Secondo Blas l’esistenza stessa, oggi, ci rende controllabili. “Il non-esistere é l’unica strategia valida per fuggire dal controllo. Il Facial Weaponization Suite rende i nostri visi invisibili. Il non-esistere significa essere totalmente deprivati da ogni identità rappresentabile che sia intellegibile, non essendo codificata in nessun algoritmo. L’essere non-esistenti fa sparire la tua identità nella nebbia, e la nebbia rende le rivolte possibili.” Gay Bombs é invece un saggio-manifesto dell’attivismo queer: “un corpo mutante, una multitudine, un assemblaggio queer terroristico che sfrutta le nuove sensibilità dell’essere queer tecnolo-gico”.
E veniamo a TransCoder: un “Pacchetto di Programmazione dell’anti-linguaggio queer”, uno pseudo-linguaggio di programmazione “orientato alla transcodifica tra livelli culturali e livelli computazionali”. Questo Software Development Kit finzionale, ispirato ad un’analisi di Manovich, che ha portato alla sistematizzazione della transcodifica, appunto, flirta con i linguaggi dell’informatica e della semiotica, offrendo “librerie ispirate a teorie queer” con lo scopo di smantellare sia le pastoie filosofico-ideologiche delle tecnologie dominanti, sia il circolo vizioso tra codici, culture eteronormative e interfacce visuali.
TransCoder ha ispirato Micha Cardenas e il gruppo Electronic Disturbance Theatre di cui fa parte, ad inserire alcuni contenuti poetici nel Transborder Immigrant Tool, un progetto di disobbedienza civile fina-lizzato all’aiutare gli immigranti illegali nel superamento del confine tra Messico e USA, offrendo loro una se-rie di tecnologie GPS a basso costo, attirando una serie di critiche da parte di alcuni media e dei conservatori, si ipotizzò anche un improprio usoi di fondi pubblici, ma il caso fu infine archiviato.
Micha Cardenas, insieme a Elle Mehramand, hanno invece esposto a LACE il progetto virus.circus. laboratory (2011), un’installazione a base di oggetti, interfacce e artefatti già utilizzati in passate perfor-mances, nelle quali i due autori hanno utilizzato dati biometrici, wearable electronics, diverse interfacce apti-che (tecnologie cioè con feedback tattile, che con speciali sensori fanno – come è stato detto – per il tatto, ciò che le schede grafiche fanno per la vista) e tele-dildonics, “giocattoli” sessuali elettronici con cui inviare e ricevere sensazioni fisiche, compreso l’orgasmo, attraverso un computer; parte di quelle pratiche di cybersex che peraltro, secondo David Levy, autore del libro Love and Sex with Robots, entro il 2050 saranno “un luo-go comune”.
Un approccio sicuramente meno carnale ma comunque performativo ha il lavoro di Xarene Eskandar, ricercatrice, designer nella moda, in interior design e live-media, e artista mediale, studia le relazioni tra architettura, corpo, ambiente e società, rivelando un particolare interesse per le relazioni simbiotiche tra tecnologia e uomo, in un “tentativo di creare punti di incontro (…) cosiddetti utopici”. Il lavoro in mostra, Architectural Organ I/Skin (2011) é l’evoluzione di un suo progetto precedente, Tentative Architectures (2009), una serie di vestiti che, quando occorre, si comportano come se fossero architetture. Ispirate dal concetto di piega di Deleuze e dalle tecniche di origami, queste “architetture personali” si relazionano al corpo come paesaggio, e al tempo stesso agiscono come interfaccia tra corpo e ambiente. Leggiamo dal catalogo della mostra: “Piegare é nascondere, dispiegare é rivelare. (…) Una piega é una molteplicità di potenzialità che aspettano di essere realizzate. Quindi una piega, un essere-divenire deleuziano, la linea-piano-come-forma, esiste su un piano di immanenza, pieno di possibilità. La chiave per esistere su tale piano é il desiderio. (…) Uno desidera il piegare e dispiegare, o in altre parole, il cercare potenziali”. Vale a dire: “…là dove un secolo fa l’organizzazione scientifica ha reso l’uomo, a suo detrimento, più efficiente nelle produzione di profitto, ora le reti, rendendo disponibili nuove relazioni con la Natura, rendono più efficiente la produzione di conoscenza finalizzata a sé stessa”.
Parlando di problematiche riguardanti l’uomo e il suo ambiente, il progetto di Michael Kontopoulos, Water Rites (2011) – http://www.mkontopoulos.com/?p=847, ha come soggetto l’uso e abuso delle risorse idriche del nostro pianeta: il progetto comprende un video su due canali, nel quale assistiamo allo svolgersi di una cerimonia sincretica, arcaico-futurista, in cui avviene uno “scambio d’acqua” da parte di una coppia.. Konto-poulos, artista e insegnante che risiede a Los Angeles, usa spesso nei suoi lavori elementi di fiction: in que-sto video, accompagnato dall’esposizione di oggetti di scena, sceglie un arido scenario post-industriale con reminiscenze neo-primitiviste per porgere una implicita critica alle pratiche culturali che si sviluppano intorno alla scarsità d’acqua, in particolare in California. Il punto di partenza per il video é il racconto di uno dei Gran Maestri tra gli scrittori di fantascienza, Robert Heinlein: “Stranger in a Strange Land” (Straniero in terra straniera, 1961), nel quale si racconta la storia di un bambino abbandonato su Marte e allevato da nativi marziani, che, al suo ritorno sulla Terra, si deve adattare agli usi e costumi umani, compreso il rapporto superbo e consumistico che abbiamo con l’acqua, a fronte della usanza marziana che vede lo scambio dell’ acqua tra due individui come un cerimoniale pieno di gesti rituali che, se completati, legano indissolubil-mente i due individui attraverso il sacro titolo di “fratelli d’acqua”.
Sempre rivolto a tematiche simili é il progetto presentato da Jeff Cain, El Camino Real (2011). In questo progetto l’autore mette in scena una spedizione botanica ispirata dall’importazione di una pianta di mostarda invasiva portata nel diciassettesimo secolo in California dal conquistador spagnolo Gaspar de Portola, giusto lungo “El Camino Real”, un percorso di 966 km che andava da San Diego, nel Sud delle California, su verso Nord fino a Sonoma. L’installazione proposta comprende documentazione originale della ricerca e video di interventi sul luogo. Jeff Cain é un artista e designer che lavora con scultura, video, suono, fotografia e per-formance. Il suo studio, Shed Research Institute, é un organizzazione che tutela la ricerca indipendente, progetti di arte pubblica e progetti site-specific.
Anche Christopher O’Leary é un artista che lavora con video, fotografia e installazioni utilizzando strategie tipiche dei nuovi media. O’Leary trae inspirazione dai mondi della science fiction, dei fumetti e dalla storia in generale, per monitorare fenomeni sociali e/o metterli in relazione con subculture narrative pop, ad esempio quelle relative alla figura del “super eroe”. Nel lavoro in mostra, Blocking the Exits (2011), l’autore crea un plot sullo sfondo di un mondo apocalittico dove quattro personaggi personificano i pilastri della civilizzazione, a rischio di disintegrazione: acqua, cibo, energia e comunicazioni. L’estetica di questa video-animazione, montata con tecniche miste di morphing e passo-uno, che si colloca tra atmosfere sci-fi anni settanta e post-produzione di stampo hollywoodiano contemporaneo, con le sue ambientazioni futuristiche e fumettose, rende allo spettatore un’allucinata sensazione di precarietà e incertezza, lasciandolo desolatamente da solo nell’interpretazione di ciò che é chiamato a vedere. Un po’ come tutti noi facciamo fatica, da soli, a trovare una via di fuga consapevole e civilmente costruttiva tra le dinamiche perverse in cui ci imbattiamo o di cui siamo informati. Servirebbero soluzioni fattive, reali, pratiche; l’Arte è utilissima nella sensibilizzazione, ma essendo il suo pubblico già abbastanza avveduto, è necessario sicuramente ampliare il bacino d’utenza di questi linguaggi ma ancora di più trovare strategie anche estetiche, ma non autolimitate alla fiction, che siano adottabili anche nella vita concreta. E infatti ci sono anche collettivi che adottano questo approccio in vece dei governi nazionali; vogliamo stigmatizzarla come “speculazione”?
http://www.welcometolace.org/exhibitions/view/speculative/
Il_7 – Marco Settembre
arti visive, Los Angeles, marco Settembre, Marco Settembre- Il_7, martelive, martemagazine, Rubrica Il_7 su, Speculative