Lotta di negro e cani
[TEATRO]
MILANO- Lotta di negro e cani di Bernard-Marie Koltés è in scena a Milano al Teatro I sino al 12 marzo. Il regista Renzo Martinelli ha deciso di disporre i posti a sedere tutt’attorno al palco, sopraelevati, come se gli attori fossero in un’arena. Così, ogni spettatore vedrà qualcosa di diverso e aguzzerà l’udito, per sentire i movimenti dei personaggi sotto di lui.
In scena, a raccontare la storia del negro che va a reclamare il corpo del fratello, il nigeriano Alfie Nze, che interpreta Alboruy, Alberto Astorri, che interpreta il vecchio capo cantiere con una voce alla Fantozzi, Horn, uno spettacolare Rosario Lisma, il pazzo, ambiguo Cal, e Valentina Picello, l’isterica Léone.
Lo spettacolo è difficile e apre a tantissimi interrogativi e riflessioni, non ha risposte univoche e ribalta spesso il punto di vista. Ad esempio sul razzismo. Non c’è solo quello di Cal verso i negri, ma anche quello di Alboury verso i bianchi (come dice Horn: “Per te non conta come mi comporto, come ti tratto o chi sono. Per te sarò sempre un padrone bianco”). Oppure il colonialismo. Quello di Horn è più umano, racconta che il suo sogno è di far star meglio tutti: non sfruttare l’Africa, ma essere tutti uguali e avere tutti lo stesso (vorrebbe che tutti i cittadini del mondo vivessero in palazzi in Francia, tutti assieme, tutti uguali, usando le risorse del resto del mondo, senza depredarlo), quello di Cal è furioso, violento, predatorio, è il colonialismo di chi uccide chi sputa vicino ai suoi piedi, se è negro. Ma anche l’africanismo è una realtà pericolosa: Léone infatti perde il contatto con la realtà, affascinata più dalle sue suggestioni (la sua idea di una vita precedente in cui era africana) che dalla realtà che ha attorno.
Molta importanza ha il linguaggio, con frequenti ricorsi al meticciato verbale da parte delle due minoranze in scena: il negro, che parla wolof , italiano, inglese e francese, e la femmina, che parla italiano e tedesco, mentre i due maschi bianchi, i capi, si esprimono solo in italiano, un italiano, nel caso di Cal, fatto anche di termini inventati (ad esempio, gli africani sono chiamati “bubu”).
La forma espressiva alterna costruzioni aspre e smozzicate, con frasi ripetute o ampliate in varie lingue, passando dall’una all’altra in maniera naturale, a momenti espressivamente poetici, puliti e lineari.
Anche il suono e le luci hanno un uso espressivo e servono a caratterizzare cambi di scena, ingressi, uscite e anche sentimenti. Questa scelta giustifica anche la scena in cui Astorri si mette a ballare la techno.
Si parla di solitudine (Cal non vuole restare solo, e separarsi da Horn, o dal suo cagnolino; Horn non vuole restare solo, e quindi trova una moglie; Alboury che è solo, perché ha perso il fratello; Léone, che crede di voler restar sola, lontana dalla civiltà, dai suoi odori e rumori), omosessualità, ossessione, razzismo, vita selvaggia, violenza, abbandono, paura, potere. Eccezionale e ambigua la recitazione di Lisma. Molto bravo Nze.
Silvia Tozzi
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