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S. Insana: Entrare… a tutti i costi!

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[IL_7 SU…]

il7Al di là dei continui richiami alla fisica quantistica, nel telefilm di fantascienza Quantum Leap, da cui prende il nome la galleria situata nel quartiere Monti, al numero 122 di Via Urbana, è un principio benefico quello che guida le peregrinazioni di Sam attraverso il tempo, di volta in volta ospitato dal corpo di un individuo diverso.

Così come Sam riesce a trasmigrare verso un nuovo corpo e una nuova avventura, risolvendo qualche grave problema del suo “ospite” di turno, così la direzione artistica della Quantum Leap Gallery intende non solo valorizzare la positiva “mission” dell’associazione culturale per l’ambiente Green Generation volta a sensibilizzare la gente ad adottare personalmente comportamenti sempre più responsabili in vista di un futuro in cui l’ecosostenibilità sia la regola, ma anche risolvere intere giornate dei volti e dei personaggi più o meno crea-tivi che passano per la Aperturegalleria, offrendo loro un repertorio di esperienze estetiche e conviviali capace ogni volta di riscattare nevrosi metropolitane e giramenti di ammenicoli vari. E poco importa se lo staff, da quan-do, circa due anni fa ha iniziato a gestire la galleria, è stato costretto ben presto ad ammettere la necessità di offrire agli avventori dei generi di conforto alimentari, sia pure con classe e discrezione; l’importante è che il pubblico più materiale e distratto si renda conto che l’aperitivo è solo un’”esca” (a fin di bene) utile ad attirare il loro sguardo su opere più o meno memorabli, che ci ricordano che siamo fatti per ben altro che non consumare tartine e Martini, e non ci riferiamo al desiderio di passare a più consistenti pastasciutte con le mazzancolle o al White Russian corretto con l’assenzio. L’allusione è diretta piuttosto a quelle occupazioni umane che hanno come obiettivo l’indagine sugli aspetti spirituali dell’esistenza, (anche) senza fini di lucro, dunque.

Scriviamo questo perché sarebbe nostro compito in questa sede illustrare la mini-personale proposta dal collega Salvatore Insana, all’interno della collettiva intitolata “Altrove” che datava dal 10 al 20 gennaio 2012, ed è noto, a chi segue la parabola in costante ascesa di questo filmaker, che la sua proposta, che insiste non a caso sulla categoria filosofica dell’inutile in contrapposizione giustappunto al lucro, all’utile che mer-cifica l’arte, ma anche all’idea autoritaria di uno scopo pre-fissato, si evolve linguisticamente ma avendo non di rado come oggetto o punto di riferimento proprio le involuzioni del sentire umano, quelle zone d’ombra a cui è inevitabile accostarsi, per uno studioso, come manifestazioni in cui il meccanismo senziente mostra i suoi ingranaggi in modo che sia Locandina(illusoriamente) più facile coglierne il senso, come in una sequenza crono-fotografica di Muybridge. Ci riferiamo al suo recente progetto teatrale “A pezzi”, già recensito qui su Marte Magazine dal sottoscritto, titolo che ogni volta, a pronunciarlo, ci spinge non solo ad interrogarci sul dispo-sitivo concettual-mediale utilizzato da Insana per (di)mostrare la possibilità di una riappropriazione di parti del nostro corpo e del nostro spirito, ma anche, e del tutto occasionalmente, ci induce a considerare a cosa altro potrebbe riferirsi l’espressione “a pezzi” nella frase appena da noi pronunciata. E mentre questo inter-rogativo viene ben presto abbandonato perché sostanzialmente ozioso, a meno che non consideriamo un po’ ogni parte di noi e del nostro mondo come cadente in pezzi, così, randomizzati, al contrario la ricerca di Insana non può che essere inesausta, perché è il tessuto stesso in cui si sostanzia il suo operato artistico, al di là del mezzo tecnico-espressivo di volta in volta usato. Scatta allora un altro interrogativo: è mai possibile che sia “Insana” una mente che indaga su un’universo di accidenti, ben sapendo che sia solo da rigettare l’epìsteme, la conoscibilità di qualsiasi presunta essenza metafisica? Forse ce lo chiediamo perché un noto regista sperimentale, fonte d’ispirazione per Insana, Roberto Nanni, ritiene che la deriva, il decentramento a fini di sopravvivenza, ma perfino la rovina controllata dell’identità sia una maggior garanzia di “esserci” davvero, nel presente, rispetto a quel presenzialismo che invece appartiene soprattutto agli orizzonti ipocriti di certi settori del mondo dello spettacolo. Ecco allora che anche Salvatore Insana rifiuta le facili appartenenze e preferisce anche lui con ostinata discrezione, approssimarsi all’Altrove che è il tema della rassegna. Ed è già appagante per chi non giudica sufficienti le fenomenologie “volgari” del mondo più sciatto, assistere alla presentazione, al resoconto para-scientifico, o forse dovremmo dire di “realismo soggettivo” (Nanni) di in-dagini che affondano l’occhio su strettoie della visione, focalizzazioni abusive, affoscamenti di prospettiva, frutto di una solitaria veglia ossessiva che paradossalmente conduce ad una apertura di senso ma soprattutto mentale, che si pone sottilmente contro gli inscatolamenti di comodo propugnati dal potere e dai suoi organi di controllo.

E’ stato dunque nel suo programmatico “perdersi” tra le apparenze del mondo mantenendo come bussola solo la Varchisua eccentrica (nel senso etimologico di “decentrata”) ratio, che Salvatore Insana ha riportato come trofeo di caccia (risultato dei suoi safari da flaneur metropolitano) le immagini appartenenti ad un suo pro-getto fotografico, “Entrare”, che rappresenta solo una minima parte del suo corposo portfolio. Il giovane autore, infatti, oltre che studioso teorico e giornalista, è non solo videoartista ma anche fotografo, e ritiene una fortuna il non aver scelto uno strumento unico d’analisi, ma di poter scegliere ogni volta tra scrittura, fo-tografia, video e teatro multimediale quello che meglio si presta per rielaborare i materiali raccolti. E per l’appunto in questi scatti in bianco/nero si ritrova, condensata nello spessore di una nerezza insondabile, l’intensità che in altre prove d’autore Insana dispiega su durate più lunghe. Ma come lui stesso dichiara: “l’intensità non dipende dalla durata; è chiaro che si tratta di tempi e sforzi diversi”, ed infatti l’ottica può anche essere ribaltata: l’immagine fissa per sua natura si offre alla contemplazione con una inerzia infinita divenendo prototipo di un rallentamento indefinito che acquista intensità proprio in relazione alla scelta che è stata fatta: lo scatto “Un posto sempre libero per i tuoi incubi” sembra raccogliere la tensione degli spiragli di luce, sottili, protagonisti delle altre immagini, e farla esplodere in una simbologia esplicita, caricata anche dalla suggestione teatrale del titolo. In questa foto, una sedia, posizionata a metà di una soglia che dà su un corridoio oscuro, blocca il passaggio e mantiene al tempo stesso la porta aperta, suggerendo appunto che l’ambiguità (identitaria), se da una parte è la via d’accesso ad un “osservatorio privilegiato” sulle zone oscure della realtà, dall’ altro espone ai sussulti che provengono dalle dimensioni ignote; un posto del genere se lo si cerca infilando il piede (o lasciando una sedia) nello spiraglio socchiuso della porta, lo si trova sempre libero perché apre sì ad altri spazi, ma son spazi che non tutti hanno l’ardire di varcare. Al tempo stesso, Light Comesse si legge la zona illuminata non come set in cui il thrill prende forma, ma come l’area in cui la luce prevale sulle tenebre, in “Entrare” la potenza dello sguardo nuovo appare simbolicamente capace di squarciare il velo di Maya (Nietz-sche), la luce è una guida, il lavoro oscuro dell’artista conduce – o addirittura è – la “fonte di accesso ad uno spiraglio rigenerante”. Il buio è il mistero, ciò che avvolge tutto in misura variabile facendone una sostanza dubitabile, la ricerca rivela quel poco che emerge, che “allora a quel punto diventa decisivo; siamo sommersi e solo qualcosa emerge…”.

L’enigma e l’ambiguità delle immagini, una volta catturate, sono la vera sostanza di cui si può decidere qualcosa, l’unica sostanza che si lascia plasmare da noi pupazzi (l’esistenza è una pupazzata”, scrisse Pirandello): ecco che nei quattro video presentati da Salvatore Insana, la fascinazione estetica e forse la tentazione metafisica si impastano lasciandoci immaginare il momento in cui lui stesso si è impastato le mani con la materia, agendo sulla timeline, sulla canvas etc del software di montaggio, luogo in cui i luoghi “veri” si interfacciano con i non luoghi dell’altrove spiritual-digitale divenendo strumento di un Altrove, appunto, che ci è immanente, da qualche parte, in qualche oscura ma non tanto lontana caverna dell’Essere, che è forse l’Esserci che ragiona su se stesso. Nella presentazione del progetto Entrare si fa riferimento all’ossessione dell’avere accesso a luoghi interdetti, al varcare soglie, all’ essere accettati da qualcuno, al tema dell’inclusione, dell’attraversamento di proprietà private, problematica intorno ad una dinamica, quel divenire a cui per secoli la filosofia ha cercato di trovare un Rimedio. L’orrore di tanti riti più o meno dichiarati, più o meno avvertiti, di passaggio pare non abbia altro rimedio che non il tempo con cui gli eventi vengono osservati a distanza, mentre al momento in cui si compiono, gli attraver-samenti sembrano dettati dall’impulsivo bisogno di giungere fin dove la vista o il giudizio non arriva. E’ dunque questa una te-matica che a che fare con l’ubris, l’empietà, il desiderio di trasgredire i limiti imposti, di avventurarsi nel buio in cerca di un varco o attirati dal vuoto stesso. Ogni barriera è un ingiusto limite posto alla conoscenza, e ciò istiga all’infrangimento degli ostacoli, e non serve a contenere l’ansia della sco-perta la nozione di inconoscibilità, l’avvertimento che il Rimedio può essere più dannoso del male, come scriveva Nietzsche. Insana prova a far leva sul dato psicologico, invece che sui massimi sistemi: l’ostacolo stesso è “formidabile, fertile impedimento creativo”, mentre la soddisfazione dell’impulso porta il desiderio alla delusione. In “Varchi” appaiono prima un settore di una circonferenza di luce radente riflessa in una pozzanghera, poi una porta che si apre in qualche sordido magazzino, poi mostrata socchiusa da un’altra angolazione, con un filo di luce che filtra, fessura da allargare per aprirsi uno spazio per i i “nostri passi mentali”, lacerazioni abbaglianti nel velluto lynchano d’una inquietudine senza nome, il trapezio di luce si allunga sghembo all’aprirsi della porta, lampi di luce al neon impazzita pulsano, fino alla rivelazione: loro, gli Altri, le figure in avanzamento, occupano, circondati dall’oscurità notturna, il ribaltamento del varco di luce sul pavimento e sembrano attività aliene che fervono nell’ombra, col sottofondo sonoro, sin dall’inizio dei 4 minuti e 30, a cura di Aron Carlocchia: frequenze audio extra-terrestri, infra-digitali, progressioni di tecno-UNpostoSEMPREliberoPERiTUOIincubirimbalzi, trascinamenti cupi, accartocciamenti di guaine, tutto quasi fuori dallo spettro acustico (t)ra(di)zionale ma ben dentro la ca-tegoria dello spettrale spaziale, perché anche la barriera della Frontiera cosmica potrebbe già esserci stata portata dentro casa. In “Aperture”, il clima è diurno, ozioso, lo spazio è grezzo e gretto, vivificato dai gesti da automa di carne dell’attrice Elisa Turco Liveri, già collaboratrice di Insana per “A pezzi”, la quale conferma qui la sua gestualità ipnotica, magari non più meccanica, che si fa carico delle suggestioni della letteratura fantastica e di E.T.A. Hoffmann in particolare. Ci viene da pensare a “La casa deserta”, ma preferiamo lasciare invece la parola ad Insana, anche per mostrarne l’abilità nell’esposizione auto-esplicativa: “Andature disciplinate e ansiose d’un corpo nella sua ora d’aria. Tentativi di effrazione di uno spazio privato o delicati suggerimenti? (…) Un invito a nascondersi ed uno a mostrarsi”. Acuti tremolii simil-pianistici creano una struttura da carillon inquietante per queste sequenze pigramente e minimalistica-mente inani, che mostrano una sensualità da disco rotto, e che formicolano sopra un raspare sonoro di sot-tofondo, mentre accordi ancora lynchani si stendono sordi eppure classici commentando le movenze della donna misteriosa che (nello split-screen mirato all’equilibrio instabile dei riquadri) non si sa se bamboleggi al-la finestra o se voglia buttarsi dentro o fuori in preda a qualche deviazione mentale grottesca. In “Doors – a gloomy walk through the tunnels of a metropolitan life”, le entrate/uscite dalla metropolitana sono accom-pagnate dai loschi battiti di un basso in avanzamento alla Carpenter, pigolii jazz e scrosci di post-rock un-derground percussivo mentre figure anonime si muovono in controluce attraversando lo specchio luminoso. Cosa accadrà “a chi accetta di lasciarsi conquistare dall’ intenzione dell’attraversamento”? Scoprirà che non si aspettava altri che lui e sarà ghermito o piuttosto rinascerà ad una nuova vita “una volta per tutte”?I per-corsi degli anonimi si intersecano, fantasmi che finora sono sfuggiti alla trappola del desiderio d’ignoto; con le loro pretese di solidità sono sfuggiti alle sirene tentacolari del Nulla che si nascondono dietro alle fessure. Per finire, “Davanti” mette in scena non la possibile minaccia “aliena” che si cela dietro agli squarci di senso presumibili di notte, ma una drammaturgia diurna riprendendo in parte la sonnecchiosità di “Aperture”; l’inizio è affondato in una quotidianità frammentata per noia ed inscritta nelle finestre del troppo guardare, là dove un vecchio sax svociato ed un cigolìo insistente introducono in un mosaico di sequenze, o meglio di esistenze un po’ svogliate che si appendono come stracci a prendere aria, incerti se rintanarsi o se trasporsi completamente allo sbaraglio. Nel gioco a rimpiattino tra chi, come l’autore-voyer, si ritrae ma pro-gettando incursioni esterne in nome di un’imperativo visuale da entomologo, e chi invece si propone banal-mente ma in realtà è prigioniero del proprio ordinario setting da recluso negli steccati preordinati, si perde il confine tra chi sorveglia e chi è sorvegliato (tema a lungo investigato dalla videoarte): le apparizioni anonime sono vittime ma in realtà appartengono ad una maggioranza silenziosa e soffocante. Per questo le loro epifanie da tre soldi, anche con riferimento allo straniamento brechtiano che deriva dall’osservare, noi spettatori, dei nostri simili come fossero insetti sotto quattro diversi vetrini, appaiono come sottoprodotti di un piattume sconfortante, quale quello del muro, interfaccia di cornice. Eppure l’individualità anche lì può aprire una breccia ben al di là della finestra e compiere un gesto di rottura poetica con la rigida impaginazione dello schermo e dei comportamenti: è un bambino che soffia le bolle di sapone verso un cielo che solo lui vede… La mano di qualcun altro invece si sporge all’infuori e con una pistola giocattolo, sembra che spari contro l’osservatore osservato. In questo caso non è uno sbirciare dentro, è un soffermarsi su quello che esce fuori. L’impulso è lo stesso, però, ed è pericoloso, perché altre volte, come abbiamo visto, apre alla conoscenza dei “Varchi” in cui Loro, quelli di cui abbiamo aspettato la comparsa nello stitico dipartimento d’analisi virale delle budella, si mostrano mentre arrivano al buio uno dopo l’altro o a piccoli gruppi, giungono sul luogo dello scanning, paiono pronti ad “operare” ma non ci concedono il disvelamento più pornografico della loro socio-patia da Visitors!

il7 – Marco Settembre

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