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Sisifo, i borborigmi, la goccia, the Godfather

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il7Magari adesso che i meccanismi della nostra filiera produttiva sono stati ottimizzati, questo articolo sembrerà invece più discutibile che mai; eppure non c’è da lamentarsi, tutti sanno che ormai non si possono più pia-nificare progetti: uno punta su un cavallo ed esplode l’ippodromo, un altro pensa di leggere una recensione e invece gli si presenta un guazzabuglio di visioni sghembe…

Morgan con la i è un cantautore scoperto per caso dai fans di Morgan mentre impostavano una ricerca su Google; forse il vero nome di questo autore è Morgani, o forse è agli antipodi di Morgan dal punto di vista caratteriale o musicale e ci tiene a mettere i puntini sulle i cantandole chiare ma con poesia, oppure ancora per ogni puntino sulle i che mette vuole togliersi qualche sassolino dalle scarpe, sparando a zero sulla giuria di X-factor o rinfacciare ad Morgan con la iAsia Argento la voce da uomo, ad ogni modo riesce a farsi distinguere per la qualità della sua proposta espressiva, spesso sostenuta da video piazzati su youtube per difendere i terreni acustici da Rihanna, Britney Spears e i colossi dell’hip hop. Ad esempio, “Resistere al tempo”, un imperativo disperato per ogni essere umano problematico, mostra appunto quelle “mani sudate” che “sembravano accese”, che “leggevano un’altra canzone” componendo alla chitarra acustica arpeggi andanti che sembrano in salita, “accordi mai stati presi e che mai lo saranno”, mentre la voce infatti con sfatta indolenza perlustra angoli abbandonati della percezione faticosa della vita chiedendosi in base a quale logica una qualche entità stia lì “a decider di noi” che sembriamo Sisifo che trascina in cima al pendìo il suo masso per poi vederlo rotolare di nuovo giù. Perché “decider di creare la luna, le stelle e i cani randagi” senza illuminarli costan-temente con qualcosa di diverso da “una certa ironia”? “Resistere al tempo” deve pur essere interpretabile diversamente che non come “un modo per non morire”. L’autore è ispirato da Federico Garcia Lorca per le liriche, e, tra gli altri, da Nick Drake e Jeff Buckley sotto il profilo compositivo, ed il testo di cui abbiamo appe-na parlato rappresenta forse uno dei motivi per cui il prete creò qualche problema prima di battezzarlo Morgan (altro che “Non esiste San Morgan sul calendario”!), Colaianni all’anagrafe. Una batteria discreta rinsalda il racconto, e la chitarra si illumina di spunti solistici malgrado il tutto sia in fondo “un’altra illusione per ingannare il tempo e riderci su”, come testimoniano le inquadrature alternate delle dita sulle sei corde, a volte fuori fuoco e scure, altre volte con la mano che riposa sul manico. “La partenza” si appoggia su un ritmico, teso sfregamento di corde che cambiano accordo, cupo, mentre la voce ci rimanda la minaccia di una “partenza isterica” da parte di una ragazza; nasce un’arpeggio complementare, la ritmica è più on the road e doppiata da percussioni, “e poi il tempo cancella la verità e lei non tornò più”: l’assolo riprende la nota prolungata di poco prima (un lontano richiamo?) e nel finale l’articolazione acustica della sei corde riscatta con la malinconia del tempo passato la perdita della verità e la (falsa) promessa di tornare. “Ma poi, nel tempo, che ci rimane del primo anno delle cose? – si chiese e andò via”. “Come ieri” ha l’inizio prezioso dell’intreccio di corde e dita intristite ma sottili, poi si sviluppa la solita pigra andatura da temperato cantore della vaghezza e delle ansie, andatura sopraffatta dalle “poche albe che riusciamo a vedere”. Ci si riesce ad essere come ieri, nonostante le tante illusioni? Forse sì, se cambiano solo un po’ le idee ma permangono i desideri, questo è il messaggio, dispiegato con Chiara Monaldi, già cantante della Med Free Orkestra, con cui Morgan duetta; il tono elegiaco cresce e resiste anche nella versione en plein air, di notte sul ponticello del Pigneto, dove è stata filmata da Felice V. Bagnato. Il risultato è delicato e struggente, si avverte il senso intimo e doloroso che amplifica la sofferenza strizzando l’anima con l’accostamento di ciò che fa male, con poche, nude e semplici verità che rendono l’esistenza una questione fragile e tragica. L’EP, Predisposizioni per un viaggio già avvenuto, è annunciato, sul myspace, anche da “Una cosa tra i denti”, in cui, con un brio che combatte contro l’ipocrisia delle persone, che va stretta a chi canta, ci si chiede “perché non si può camminare nudi per strada, incontrarsi e avere vergogna dei vestiti”; le tenui note d’accompagnamento pia-nistico conferiscono una sostanza quieta e non accigliata a questa protesta mite che affiora con la giusta franchezza tra i denti divenendo un avviso fraterno perfino per il di Lei sorriso. Quella di Morgan Colaianni (ribattezzato “con la i“ live al ConteStaccio nel 2011) è una proposta che si sgrana piacevolmente riflessiva con una leggerezza avvertibile anche attraverso la profondità delle inevitabili inquietudini contemporanee, e viceversa.

Ghouls n ghostsI Ghouls ‘n Ghosts sono romani e, al di là del nome che già da solo attira l’attenzione lasciando presagire atmosfere goth e trascinamenti di catene (in realtà assenti), hanno saputo guadagnarsi l’interesse di diversi operatori del settore per poi gettarli in pasto alla preoccupazione più disinteressata annunciando il distacco della vocalist Roberta Di Stasio. Il talento ed una certa attitudine alla ricerca, a dispetto della ordinaria tendenza all’adattamento a modelli preesistenti, li avvicina a gruppi diversi su un (dis)continuum che va dai Pink Floyd della maturità ed i Led Zeppelin, a band sofisticate come Porcupine Tree, Ayreon e Opeth fino a formazioni caratterizzate da un sound più diretto e di impatto come quello dei Muse o dei Disturbed. Tuttavia i G’nG non aderiscono pedissequamente e totalmente ad alcuno di questi modelli ma la loro euristica gli ha fruttato una formula in cui, al prezzo di una consistenza non del tutto compatta, con delle confuse incertezze in parte imputabili alla perfettibile produzione, si trovano coniugate efficacia espressiva e sofisticazione. Naturalmente con queste premesse non si può che parlare esplicitamente di prog contemporaneo screziato di metal e alternative, un meta-genere per cui il gruppo dimostra vocazione esibendo brani come “8” in cui, dopo il recitativo iniziale, annuncio ferale da un futuro in cui la libertà viene negata, i borborigmi del basso danno la stura ad un andamento oscuro e tracciato da plumbee distese di cortine metalliche chitarristiche su cui la voce prima imposta la strofa e poi si intreccia con la backing voice maschile in un potente crogiuolo di rivendicazioni eroiche su cui la stessa chitarra solista si eleva con rifiniture svettanti: la corposità non si disgiunge dalla nettezza, l’efficacia della composizione nulla toglie al livore delle “mostruosità” che, nel testo in inglese, minacciano l’umanità precludendogli la creatività e persino la volontà di liberarsi degli oppressori. In “The Equalizer”, l’arpeggio crepuscolare iniziale produce una cappa di malinconia nella cui ombra si agitano con lentezza i movimenti quotidiani di chi è sopravvissuto al suo stesso destino, e la voce femminile sembra smuovere risorse di saggezza dalla stagnazione morale, mostrando intima partecipazione nel patetismo toccante della linea melodica e creando il coinvolgimento necessario nello spettatore per fronteggiare la levata di scudi drammatica, simboleggiata dal riff in contrappunto su cui, all’avvio di una progres-sione ritmica, si appuntano le voci secondarie, in funzione evocativa; la lotta sotterranea verso una paranoia di rimbalzo gorgoglia sullo spessore cupo dell’arrangiamento, addivenendo ad una conclusione tronca. Il clima opaleggiante prodotto all’inizio di “Aramaic” sembra invece più ipnotico, sospeso su rarefazioni cristalline grazie alle spigolature aeree della chitarra solista, ma anche qui il respiro profondo del mito si desta sulla struttura ambrata e apre a strofe ampie con il sostegno di un chitarrismo denso ma preciso, su cui arzigogola pinnacoli la chitarra solista in un ottimo assolo prorompente, che si placa solo in una nuova bolla intimista con il tenue arpeggio sullo sfondo, ma è solo una pausa prima della ripresa del tema più liberatorio, insistito, in cui la voce col suo vocalizzo si libra sull’impasto, suffragata anche dalle voci di sostegno, e nel finale la frenata del basso autorizza la garbata sfumatura atmosferica. Il basso prominente di “Papadopoulos” apre per una ruvida chitarra di veemenza primordiale, poi un narrativo maschile introduce un primo tema su cui si instaura la voce femminile, introducendo un riff presto trasformato nel tessuto di base per una strofa al galoppo che si giova anche di una progressione tastieristica elettronica ripetuta, con un profluvio di effetti psicotropi di calcolato stridore, in uscita, che consacrano questo pezzo come il più sperimentale e probabilmente il più appagante. Complimenti al quartetto, da cui ci aspettiamo, con una nuova voce solista, anche una evoluzione, ancora più consapevole, di queste trame cangianti!

Hari the drop prendono l’input musicale dal grunge di Seattle e dintorni, ma rilevano lo spirito dagli abitanti dellaHari the drop regione del Rajasthan, nell’India Occidentale, che hanno accettato la mancanza di piogge tipica di quell’area come una sfida al loro essere, a cui hanno risposto interiorizzando dalla cima dei capelli alla punta dei piedi la natura dell’acqua, che parla loro più che a tutti noi, con semplicità e fluidità fin dal primo avam-posto della pioggia, quella prima goccia che colà viene chiamata appunto Hari e che si fa araldo di una so-spirata rigenerazione, nell’attesa estenuante della quale nessuno, in alcun libro antico, ha voluto descrivere qualla terra come un deserto arido o desolato. Sarà forse pensando viceversa ad una fittissima giungla pluviale che gli Hari the drop hanno prodotto “Green Wall”? L’aggrottamento delle risorse chitarristiche è evidente sin dall’inizio, lo snodarsi del brano ha una potenza sorda e introspettiva, una virulenza soffocata, in cui la chitarra che traccia la trama è comunque livida e ruggisce bassa, mentre la voce spande le sue ragioni con la sicurezza di chi ha in mente il proprio… Nirvana; in un inciso il cupo brontolìo si assapora nella sua disposizione primaria, ma poi il ritmo riprende incessante e la chitarra solista di nuovo trova modo di emer-gere per un tratto mitragliando un tono più acuto, e poi si entra nel sottobosco con il titillamento delle sei corde e delle felci svegliandosi alla contemplazione raffinata dello spessore olistico delle minuzie vegetali e degli insetti, in tutta la seconda parte del brano, davvero godibile ed intrigante. “Memories” si sviluppa tribale da un ritmo percussivo variegato il giusto, con il cantato che indugia su pagine del proprio passato che son diventate piaghe in cui ritorcere il proprio sguardo retrospettivo; questo si piega in toni e sottotoni delle chiavi armoniche, e così sotto la superficie apparentemente imperturbabile di una faccia senza ripensamenti scorre il fluido ambiguo e incessante di immagini che paiono vestigia di una realtà improbabile, che l’assenza a tratti del drumming ci lascia riassaporare, in un lavorìo continuo, ossessivo, nei solchi del rimpianto, fino alla torsione finale con arpeggio conclusivo. “Sp” presenta un incastro originale tra il ruvido pulsare della chitarra ritmica e l’impulso sonico da allarme della chitarra solista, che eppure sta in subordine, mentre la voce lancia apparentemente slogans a favore di una riconciliazione con le aspirazioni al ribellismo fine ‘60s; anche nelle sezioni in cui il riff più emergente e allucinatorio tace a favore del sostrato ritmico, anch’esso sofisticato sottotraccia, la voce sembra promuovere un approccio positivo, almeno quanto quello che propugnano gli autori di South Park (forse SP deriva da qui). “Slapstick comedy” nasce da accordi pigri, isolati nel vuoto d’un mattino senza nerbo, e poi chiama a sè la voce, che si scuote dal torpore e mette poco dopo in scena la fisicità delle chitarre, chiamate a sostanziare la voglia di lasciarsi ruzzolare verso il centro della giornata vocalizzando note prolungate mentre nel finale la delicatezza dei pizzicati languidoni riemerge come ad indicare le tendenze pacifiche di chi si sgrulla giù dal letto per strappare un sorriso ad un altro se stesso come in una slapstick comedy onirica. Proposta di genere, e però già matura, la cui cifra creativa stimola come Hari, pur nel rimescolìo tipicamente depresso delle inquietudini/attitudini “sporche” e “rumorose” dell’alternative dello stato di Washington.

The DivinoesThe Divinoes, invece, sembrano venire da Brooklyn (leggasi “brokkeline”), e se fanno sul serio, vestiti come sono da mafiosi da clan newyorkese, è opportuno andarlo a verificare in uno dei loro show pluridimensionali tra il passato cult così ben incapsulato nella serie di F. F. Coppola dedicato a “Il padrino” e alla sua famiglia, il presente in cui la mafia è divenuta un linguaggio più internazionale ed italoamericano che palermitano, ed il futuro affabulato da cui gli ultimi esponenti di questo sottomondo in estinzione mandano indietro questi musicisti per fare in modo che salvino lo spirito originario e la particolare etica della Family prima che si “cor-rompa” e li porti alla catastrofe. Lo show è curatissimo sin dall’abbigliamento, passando per l’immaginario evocato, per finire con la trovata del grammofono modificato, vero e proprio ponte inter-dimensionale, da cui esce la voce “fenderata”, e quindi gli ordini, del Padrino. Le modalità d’espressione sonora prescelte sono invece molto moderne, anche se tese alla ricreazione di un’atmosfera rètro: e quindi ecco l’ampio dispie-gamento di effetti elettronici, le chitarre alla Tarantino, l’eleganza romantica del piano classico che si integra con una groove machine coinvolgente, un po’ di minimalismo contestualizzato ad hoc, ed un impasto com-plessivo che rilancia con ampiezza di spettro la formula dell’opera-rock in chiave di melodia italiana rivisitata, con perfino accenni di rap, sicuramente nella variante “gangsta”, c’è da scommetterci, mariuoli! Si tratta in-fatti di un crime-show aperto alla contaminazione di diversi linguaggi ma soprattutto mirato alla rappresen-tazione della debolezza umana, e alle contraddizioni dell’animo umano, sospeso tra la ricerca del rispetto e di un codice d’onore e la tendenza a ricorrere alla violenza per crearsi una giustizia su misura! L’operazione ha ovviamente un senso anche goliardico, ma al tempo stesso si profila culturalmente come tipicamente post-moderna con il ricorso massivo al citazionismo che rende il progetto così immediatamente “leggibile”. Forse il medium-chiave è la linea vocale, che tiene i fili della melodia italiana e anglosassone ed il mood operistico e quello da musical, per non parlare del lounge da club, ma una cosa è certa: una volta che vi ritroverete in questo set sonoro dove si vede con le orecchie, e vi sarete uniformati ai dieci comandamenti di Cosa Nostra, così come sono elencati anche sul sito del gruppo (http://www.thedivinos.com) non ci sarà certo bisogno delle armi a tenervi inchiodati e omertosi ai vostri posti nella sala, ma piuttosto dovrà interve-nire Madama per fare una retata e portarvi via, altro che rosso Chianti e “C’era una volta in America”!

il7 – Marco Settembre

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