Quando il servo di scena diventa protagonista
MILANO- In tempi incerti come quelli che stiamo vivendo può capitare di dedicare qualche ora del proprio tempo alla lettura di annunci lavorativi. E magari proprio durante questa attività (poco) ricreativa potrebbe capitare di imbattersi in un annuncio per servi di scena.
In realtà il lavoro prospettato è più “nobile” di quanto possa sembrare, nonostante le soddisfazioni riservate dal ruolo siano pari a quelle dello stagista-schiavo di borisiana memoria. Proprio a questa figura l’autore, sceneggiatore e commediografo inglese Ronald Harwood (sua, tra le tante, la sceneggiatura de Il pianista di Polanski) ha dedicato una delle sue opere più celebri e autobiografiche ossia Servo di scena.
Harwood, infatti, si trasferì negli anni ’50 dal suo Sudafrica a Londra con un’idea ben chiara: diventare attore. Ma la strada verso il palco fu irta di difficoltà, visto che, pur entrando a far parte di una prestigiosa compagnia shakespeariana, capitanata dall’attore Sir Donald Wolfit, dovette accontentarsi inizialmente di essere il suo servo di scena, ossia colui che, al pari di un segretario-confidente, si occupa di soddisfare tutte le richieste del proprio “padrone” durante i tour in giro per teatri. Grazie a questa sua conoscenza diretta, Harwood, nel suo racconto, evita i toni edulcorati, anzi descrive il teatro per come gli è dovuto apparire ai suoi esordi, ossia un luogo spietato, caratterizzato da primi attori narcisisti e da una realtà che risucchia ogni cosa, soprattutto le vite di chi, a vario titolo, vi lavora. Ed è proprio con questo testo che Franco Branciaroli ha deciso di inaugurare la sua collaborazione con il Centro Teatrale Bresciano, cimentandosi nel doppio ruolo di attore e regista. Visto il tema è stato, non sorprende che lo spettacolo sia sbarcato a Milano, sul palco del rinnovato Teatro Grassi, sede storica del Piccolo, laddove, anni or sono, prese corpo il progetto culturale di un giovane e geniale triestino, Giorgio Strehler.
La storia è ambientata a Londra, nel 1942: un periodo di certo non dei più facili per la capitale inglese, costretta com’era a subire i continui bombardamenti tedeschi. In questo contesto, un gruppo di attori continua a recitare in un teatro di periferia dall’aria piuttosto scalcinata. Il pubblico, infatti, nonostante le difficoltà, non molla e continua ad andare a teatro, rischiando la pelle sotto le bombe. Il teatro, infatti, in un certo qual modo, è lo “strumento” attraverso cui gli inglesi cercano di resistere alla prova di nervi cui la guerra li sta sottoponendo. In questo contesto, un vecchio attore shakespeariano Sir Roland (Franco Branciaroli) vive il dramma del suo tramonto fisico e della conseguente depressione. Depressione che fomenta in lui la voglia di rinunciare ad andare in scena, a poche ore dal debutto del suo ennesimo Re Lear. A convincerlo a non mollare interviene però il suo servo di scena, Norman (interpretato, in modo a tratti eccessivi, da Tommaso Cardarelli), che ha immolato la propria vita a servizio del teatro, identificandosi nello smisurato ego di Sir Ronald e idolatrandolo in modo ossessivo. Ma nei camerini non c’è solo Norman: intorno al vecchio leone del palcoscenico, infatti, comincia il balletto degli altri membri della compagnia, propensi a sospendere lo spettacolo e a non far recitare Sir (come tutti chiamano Roland, in un misto tra confidenza e reverenza); il servo di scena però non è d’accordo, anzi insiste e si prodiga per rimettere in senso il suo “padrone” in quanto la sua unica ragion d’essere sta nel suo idolo, amato e odiato allo stesso tempo: attraverso di lui, infatti, Norman può vivere quella vita che non è riuscito ad avere, come se il talento e LA celebrità di Sir Roland gli consentissero di brillare di luce riflessa. Una luce che sarebbe destinata a spegnersi per sempre nel caso in cui Sir si ritirasse dalle scene.
Insomma, una pièce che, come lo stesso Branciaroli ha dichiarato, “è un inno al teatro, alla sua capacità di resistere in tempi difficili, alla sua insostituibilità”. Il testo, inoltre, ha l’indubbio pregio di svelare al grande pubblico una realtà, quella dietro le quinte, poco nota. Aspetto quest’ultimo sottolineato in modo egregio dalla scenografia di Margherita Palli che, oltre a rinunciare al sipario, opta per una struttura a due livelli che rappresenta la sezione di un teatro, con sopra un palcoscenico che dà le spalle al pubblico in sala e sotto i camerini rivolti, invece, verso gli spettatori. Per quanto riguarda la messa in scena, il “peso” di Franco Branciaroli, si fa sentire, “peso” accentuato dal doppio ruolo che riveste nella rappresentazione. Sia come regista che come attore, porta in scena un efficace mix tra dramma e commedia, ironia e disperazione. Tra l’altro, ça va sans dire, il ruolo di Sir gli calza a pennello, visto che i punti di contatto con il personaggio che interpreta sono molteplici sia dal punto di vista caratteriale che professionale. Non a caso lui stesso ha dichiarato che “l’attore, specie quando invecchia, tende a essere proprio come Sir”. Discorso a parte merita invece la prova di Norman- Cardarelli che mi è sembrato a tratti, specie nell’epilogo finale che lo vede protagonista assoluto, eccessivamente caricaturale e alla ricerca di un’effeminatezza isterica che alla lunga rischia di rendere il suo personaggio insopportabile, anche nel dramma.
Christian Auricchio
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