456 ettari di feroce ironia
MILANO- Chi ha avuto il piacere di seguire su Sky (o sull’ormai imprescindibile YouTube) la serie televisiva Boris dedicata al (poco) magico mondo della fiction italiana, non potrà non recarsi a teatro con un minimo di aspettativa nei confronti di 456.
Lo spettacolo, infatti, in scena fino al 6 novembre al Franco Parenti di Milano, è scritto e diretto da Mattia Torre, uno degli autori di Boris, serie che ha avuto l’indubbio merito di far entrare un po’ d’aria fresca nel desolante e stantio panorama televisivo italiano. In realtà Torre non è un neofita della scena teatrale dato che è opera sua il potente monologo Il Migliore, portato in scena, qualche anno fa, da un bravo Valerio Mastandrea. Un autore a tutto tondo dunque, che non rinuncia mai alla sua visione ironica e dissacrante delle cose. E non vi rinuncia nemmeno in questa sua nuova fatica ossia 456: un numero che, come si scoprirà nel corso nella narrazione, può essere letto (e interpretato) in due modi diversi.
Il primo modo viene svelato quasi immediatamente: 456 sono infatti gli ettari di terreno ubicati in un non meglio precisato Meridione d’Italia e di cui è proprietaria una famiglia composta da Ovidio, il capofamiglia (interpretato da Massimo De Lorenzo), sua moglie Maria Guglielma (Cristina Pellegrino) e il figlio diciannovenne Genesio (Carlo De Ruggieri). Ma quella in scena non è la classica famiglia felice a cui la pubblicità ci ha abituato, anzi: si tratta di nucleo familiare che non ha legami d’amore né al suo interno né col mondo esterno. La famiglia in scena, infatti, è un’ entità che invece di accogliere e proteggere, genera frustrazione e inevitabilmente violenza (verbale, ma anche fisica): fin dall’inizio è evidente che padre, madre e figlio si sopportano oramai a stento e che la loro convivenza forzata è foriera solo di piccole cattiverie reciproche, come quella di scagliarsi contro delle noci o il salame che pende dal soffitto a mo’ di lampadario. Tutto questo mentre ai fornelli cuoce lentamente un sugo di pomodoro lasciato in eredità dalla nonna, ormai passata a miglior vita da qualche anno. Questa routine viene però interrotta dalla notizia di un’imminente visita da parte di un funzionario comunale (Franco Ravera), evento che porta ad una tregua armata: tutti e tre i protagonisti sono infatti convinti che da quella visita dipenderà la loro futura felicità, felicità però che non è minimamente convergente sul medesimo desiderio, anzi.
Ogni personaggio ha infatti il suo sogno: il figlio, ad esempio, vorrebbe andare a Roma e lasciare quel luogo infernale in quanto “la vita non può essere solo provole e prosciutti”, frase che ben evidenza una certa ossessione legata al cibo che alberga in molte famiglie italiane, soprattutto al Sud. Dal canto suo, invece, il padre ha tutt’altri interessi e cerca di distogliere il figlio dai suoi intenti di fuga elencandogli i rischi della grande città, coerentemente con la sua visione nichilista della vita, secondo cui “in questo paese l’unica cosa in cui si può credere è un posto al cimitero”. Ed è proprio da questa visione che scaturirà la seconda interpretazione di quel 456 che dà il titolo alla pièce e che non è mia intenzione svelare, per non far perdere al lettore il gusto della scoperta.
Protagonista assoluta dello spettacolo è dunque una famiglia italiana con tutti i suoi limiti: ripiegata su se stessa, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, spaventata da quello che c’è al di là del rassicurante (g)uscio domestico, una famiglia che, secondo lo stesso autore, “è spesso il luogo dove nasce e cresce la nostra arretratezza culturale”.
Nonostante questa situazione tragica, Torre opta per una scrittura ferocemente ironica: infatti, come in Boris, anche in 456 c’è tanta voglia di prendersi in giro, con la consapevolezza che l’(auto)ironia spesso è l’arma migliore per esorcizzare i problemi. La scrittura è poi sostenuta da un linguaggio particolare, bislacco, che storpia l’italiano e che fonde insieme dialetti diversi con risultati esilaranti. Gli attori, dal canto loro, interpretato bene lo spirito di questa tragi-commedia: masticano le storpiature dialettali e rendono credibili personaggi grotteschi, dosando bene pause, comicità, silenzi.
Funzionale alla narrazione è anche la scenografia di Francesco Ghisu che si affida al legno e al cibo. Oltre a tavoli e sedie, compaiono in scena anche bicchieri da osteria, pecorino, noci, salamelle, un tagliere e un coltello a scatto ossia tutto quello che si immagina di trovare, ai limiti dello stereotipo, in una tipica cucina del Sud. Le quinte, poi, sono inesistenti, scelta che lascia gli attori sempre in scena, anche quando il pubblico sa che non dovrebbero esserci, cosa resa possibile da un intelligente gioco di luci e ombre curato da Luca Barbati. Anche questa una scelta azzeccata nell’economia della narrazione, dato che ben comunica l’assenza di vie di fuga da quell’utero infernale in cui può trasformarsi la famiglia italiana.
Christian Auricchio
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