Ilenia Volpe: radical chic a chi?
Incontrare Ilenia Volpe, anche ora che è imminente il debutto di Radical Chic Un Cazzo, non è impresa molto difficile: quando non suona (le poche volte) sta andando a sentire qualche collega. La incroci in strada e fatichi un po’ a mettere a fuoco.
Poi la osservi meglio: occhi spalancati e curiosi, aria vagamente inquieta anche quando sorride, risposta (seria, faceta, o non di rado entrambe le cose insieme) invariabilmente pronta e – soprattutto – sempre diretta. Modesta al punto che sembra volerti convincere che appena girerai l’angolo troverai subito di meglio, non si sottrae alle domande, oscillando con naturalezza tra spiazzante cazzeggio e repentina profondità.
Se poi ci aggiungi la deliberata attitudine sdrucita del vestire, l’aria “tosta” e una certa somiglianza nei lineamenti, non ci vuol molto ad avere l’impressione di trovarsi di fronte una qualche italica specie di Patti Smith, disincantata e battagliera. Magari porta bene.
Ripercorrendo questi tuoi ultimi tre anni di attività, si ha la netta impressione che il tuo disco d’esordio arrivi dopo una marcia di avvicinamento lunga e tortuosa, costellata anche di incertezze e una “resa” sfiorata, ma fortunatamente non avvenuta. Raccontaci l’evoluzione della musicista Ilenia in questo triennio.
La si può chiamare evoluzione, morte e poi ancora rinascita. Io la definirei rifiuto. Che è stato ed è tuttora il mio unico modo per non arrendermi. Oggi è un inizio. Arrivato dopo anni in cui non mi aveva mai sfiorato l’idea di fare un disco tutto mio, perché non sentivo di esserne degna, di avere una personalità talmente forte da poter disintegrare la mia stessa musica. Ed ora amo comporre pensando che ciò che sto scrivendo potrebbe essere annientato esattamente 2 minuti dopo, da me stessa ovviamente.
In questo contesto, che incontro è stato quello con Giorgio Canali e i suoi musicisti?
Illuminante. Semplicemente illuminante.
Oltre a Canali e i “suoi” Operaja Criminale, hai collaborato con Moltheni, partecipato a “Generazioni” per omaggiare i Santo Niente, diviso il palco con Ginevra Di Marco, Lilies On Mars e Mia Wallace. Mondi complementari al tuo, non distanti, ma neppure vicinissimi: raccontaci qualche istantanea “umana” per ciascuna di queste esperienze.
Il ricordo più divertente in assoluto è stato quando con Giorgio, per sfidare il freddo di Bassano del Grappa, abbiamo improvvisato un allenamento di step dentro casa. Scene assolutamente rock.
E poi un after-show con le Lilies on Mars, per terra con una chitarra, a cantare canzoni dei Beatles di fronte all’alba.
Aggiungerei un episodio nel backstage di un concerto in apertura di Massimo Zamboni ed Angela Baraldi. Lei indossava con una panciera post-colpo della strega o qualcosa del genere. Le dissi: “Devi suonare così, stai veramente bene e fa molto rock”. Bene, è salita sul palco in panciera.
E’ ancora possibile un incontro vero tra i musicisti, in un contesto come quello attuale? E quanto e perché è importante per la tua musica?
Basta non farsi rodere il fegato dall’invidia, no?! Non so quanto sia importante, ma è indubbiamente “rinfrescante”.
La tua passione “dicotomica” che abbraccia il rumore (Nirvana, Nine Inch Nails e Teatro Degli Orrori) e la melodia classica dei Modugno, dei Beatles e dei Giganti è dichiarata e ormai nota al tuo pubblico: c’è invece qualche realtà che ti ha colpito particolarmente, nel contesto underground che pure “frequenti”?
Modugno più che una passione è soprattutto un ricordo legato a mio papà, che ne suonava le canzoni sul divano di casa. Sai quelle immagini che ti rimarranno dentro per sempre? In ambito underground ho diversi “deboli”, basta fare un giro sul mio Myspace per scoprire di chi si tratta.
E si arriva al disco. Radical Chic Un Cazzo, già dal titolo, sembra una risposta. Se lo è, a chi la rivolgi e perché?
Nessuna risposta. Volevo una parolaccia nel titolo 🙂
Come già detto, il disco si avvale della supervisione di Giorgio Canali. Tra metodo di lavoro e approccio ad arrangiamento e suono, qual è stato il contributo che ha portato al tuo lavoro?
Direi lo stesso contributo che il ripieno di ricotta può dare ad un raviolo.
La tracklist comprenderà brani che hai “rodato” dal vivo negli anni, più qualche inedito assoluto. E’ stato difficile renderli un corpo unico?
Al contrario, la cosa è avvenuta con assoluta naturalezza. Non ho avuto neanche il tempo, fortunatamente, di ragionarci su, perché Giorgio mi ha “scaraventato” in studio a registrare in presa diretta, tutti insieme, senza clic. Mi sembrava di essere sulle montagne russe. Ecco, la naturalezza di un conato di vomito. Fantastico.
Hai sempre curato molto la dimensione di band. Raccontaci i tuoi musicisti.
Per me è fondamentale suonare con “le persone” e poi con i musicisti. Se sei uno stronzo, arrogante e presuntuoso (forse era sufficiente dire stronzo) non ho voglia di passare del tempo con te. Quindi come potrei suonare con te?
Se sei una persona spiazzante e sorprendente, stimolante e percettiva ci siamo. Possiamo suonare assieme. I ragazzi con cui salgo sul palco sono Dario Mattia, Roberto Fasciani e Fabio Staffieri che, oltre alle caratteristiche di cui sopra, li sento dentro la mia musica. E poi ruttano e dicono parolacce con estrema eleganza.
Lo porterai in tour, questo “Radical Chic”?
Non vedo l’ora di farlo, a patto che qualche locale mi chiami. E non mi cacci via prima della fine del concerto.
Nei tuoi brani dedichi molta attenzione all’universo delle emozioni, ma anche al modo in cui la nostra comunità le recepisce, le “mastica” e poi le risputa fuori. Un’interazione che sembra un punto nevralgico della tua scrittura.
Sai una cosa? Dopo anni ancora non so cosa scrivo, non ho mai amato analizzare, né tanto meno creare teorie o sfatarle.
Non hai mai nascosto il tuo essere sociale e le tue posizioni politiche, pur non avendo mai usato il palco come un megafono. Come convivono la cittadina e l’artista, in un momento come quello attuale?
Male. Assolutamente male. Ci sono momenti in cui vorrei andarmene via e non so dove. Altri in cui vorrei che fossero altri ad andarsene (e so dove).
Ti troviamo anche nella formazione dei MUG. Chi siete, come vi siete conosciuti e su cosa si basa il tuo incontro musicale con loro?
Il progetto Mug l’ho scoperto anni fa, quando ho conosciuto Fabio Mele, bassista e unico componente rimasto rispetto alla formazione iniziale. Ho sempre amato profondamente l’umanità e la sensibilità di cui sono dotati: caratteristiche che si rispecchiano incredibilmente in ciò che suonano.
Essere chiamata proprio da Fabio per entrare a far parte del gruppo è stata una delle cose più belle ed emozionanti che mi siano capitate in questi anni di attività.
In ambito rock non si dice “in bocca al lupo”, ma “in culo alla balena “ 😉
Crepi il culo della balena allora… 🙂
Francesco Chini
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