Einsturzende Neubaten
ROMA- Formatisi nei sobborghi di Berlino nel 1980 e emblematicamente debuttanti in LP con un’opera che indica una fine più che un inizio (Kollaps, 1981), gli Einsturzende Neubauten il 1 giugno hanno fatto tappa a Roma in una Sala Santa Cecilia (Auditorium Parco della Musica) stracolma, lasciando intendere che, dopo trent’anni di percorso creativo, la band tedesca è stata in grado di travalicare i confini di genere, imponendosi in un conteso solitamente ospitante sonorità orchestrali o rinomate celebrità “popular”.
Scegliendo di far musica non per mire precise, ma piuttosto – come Blixa Bargeld, il carismatico leader del gruppo, ha dichiarato in un’intervista – semplicemente come “un’estensione delle condizioni di vita così com’erano allora”, gli Einsturzende Neubauten (da tradurre con “nuovi edifici che crollano”) nacquero con una ferma impostazione anti-pop, facili com’erano (e come sono ancora) a preferire intensità noise e deliri strumentali alla facile orecchiabilità, e in più rigettando quel che è l’ordinaria strumentazione (“no more drum set!”), servendosi piuttosto di pickpus, oggetti trovati e riciclati per il loro inedito potenziale percussivo. Così barili, tubi, pezzi di metallo, trapani, seghe, martelli, o ancora chitarre elettriche scordate sono entrati a far parte delle armi musicali dei Neubauten, ispirando partiture in cui la rimanipolazione in post-produzione è minima e il gusto per la riscoperta dei suoni trova invece inaspettati risvolti.
Un gusto surrealista per l’object trouvè e insieme una dichiarazione di poetica “povera” (come al solito, di necessità virtù: non c’erano i soldi per comprare sintetizzatori), un prescindere da quel recinto dei suoni standard per dilagare in forme che sono debitrici in parte ai padri futuristi (Russolo e Marinetti, citati anche durante il concerto in Let do it as Da Da) e alla ricerca della sperimentazione contemporanea (Cage, Stockhausen), e in parte a quel kraut-rock che era esploso pochi anni prima nella stessa Germania (Kraftwerk, Neu, Can).
Strategie industrial contro l’architettura dei suoni, lottando per l’abolizione di una barriera sonora, inoltrandosi in una battaglia con la materia, assai pesante, con cui confrontarsi, attraverso quel centro di gravitazione che è la voce, deformata, dolce o urlata, quieta o rimanipolata di Blixa, un performer di rigore teutonico e ferocia gentile, dallo sguardo fatale e dal lirismo efferato. Posatezza del gesto minimo.
Il concerto ha presto assunto i caratteri di un rituale capace di superare l’ordinaria fruizione, nello stupore di veder praticato concretamente ogni suono, da una compagine nero vestita, di ambigua eleganza (fa eccezione Alexander Hacke, il bassista in canottiera, dai chiari riferimenti hard-rock) e in cui la carica distruttiva delle origini, di contropartita rabbiosa e nichilista al grigiore della via nelle periferie dismesse di Berlino e dell’anima (ancora giocosamente in ballo in brani come “Let’s do it a Dada” o “ Redukt”), progressivamente è andata amalgamandosi e compenetrandosi con una certa armonia pregna di “melancholia”, con lo spirito romantico, sublime e fatale, quello di un’altra Germania, lirica e ctonia, quello di brani ipnotici e di scostante visionarietà come “The Garden” (che ha aperto il concerto) o “Total Eclipse of the sun” (che l’ha chiuso).
Su tutto, la forza magnetica di Blixa, un “halber mensch” (mezzo uomo e mezzo alieno, così come il pezzo dei Neubauten dell’83) elegante e diabolico, dotato della posatezza del gesto minimo, esoterico e incline allo scherzo, criptico e solenne, sempre in dialogo con l’altro (il vecchio o il nuovo) da sé, uno di quelli che sembra sappia bene di cosa si tratti quando si parla di inferno e anche di paradiso. Uno di quelli che in quei luoghi, in quelle dimensioni, c’è già stato. C’è stato per poter tornare qui sulla rovinosa terra, tra flash di fotografi improvvisati, vittime della registrazione digitale che seppur in prima fila preferiscono registrar-rubare immagini piuttosto che godere del presente. Qui seduti tra nuove e vecchie generazioni dalle tinte dark. Tra veneranti e deliranti, tra ovazioni e incitamenti. Fino a quel vitale “rompete le righe” dettato dal doppio bis, una standing ovation capace di trasformare quasi la sala in elegante arena, per corpi liberi di lasciarsi andare.
Salvatore Insana
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