Simone Cristicchi in “Li Romani in Russia”
ROMA- Dal 5 al 10 aprile nel nuovo spazio del Teatro Ambra alla Garbatella di Roma è andato in scena il monologo Li romani in Russia con il cantautore Simone Cristicchi questa volta nelle vesti di attore che interpreta tutti i personaggi, con la regia di Alessandro Benvenuti e le musiche di Gabriele Ortenzi (Areamag), tratto dall’omonimo poema in versi di Elia Marcelli (1915-1998) adattato per il teatro dal professor Marcello Teodonio (e diventato anche un fumetto dal titolo omonimo con i disegni di Niccolò Storai e prefazione dello stesso Cristicchi, edito da Rizzoli).
Dopo aver debuttato con grande successo a Mosca lo scorso 31 ottobre (con un traduttore simultaneo), il 20 aprile lo spettacolo è stato anche al Teatro Franco Parenti di Milano con il Coro Alpino Orobica che ha eseguito brani legati a quella drammatica spedizione.
Li romani in Russia racconta l’orrore della campagna di Russia (1941-1943), l’episodio più drammatico vissuto dall’esercito italiano nella seconda guerra mondiale, attraverso le vicende di un gruppo di giovanissimi soldati della Divisione Torino mandati a morire da Mussolini lontano dall’Italia (ritornarono solo in 90mila su 220mila ed Elia Marcelli fu tra i reduci della spedizione, insieme a Rinaldo il nonno di Simone). Lo spettacolo di Cristicchi si presenta nella forma del teatro civile e sceglie di usare il dialetto romanesco e la metrica dell’ottava classica, come nel poema epico di Marcelli, assimilando in parte allo stesso tempo la lezione del teatro di Carmelo Bene: l’attore come atto-retorico dell’agire orale, che toglie di scena più che sfaccendare nello spazio scenico, ridotto all’osso, rimanendo Simone quasi al buio (benché illuminato da diciotto fari), diventando una macchina attoriale amplificata che recita il testo scritto (che coincide con l’orale).
Come ha scritto il critico francese Jean Paul Manganaro a proposito di C.B. “il carisma è nell’attore, che è il solo portavoce dello spettacolo, perché deve assumere ed elaborare da solo il fattore poetico che era prima insito nel testo scritto, e in quanto tale ormai irrappresentabile a teatro: l’attore recitante è il poeta, l’artefice di una forma moderna di enunciazione”, che Cristicchi incarna pienamente. “Dando un’immagine precisa dell’attore in scena, e non più del personaggio da interpretare, egli ha dettato il rinnovamento dell’epico, formulandolo al contempo come memoria inquietante del passato…la voce è medium tra il corpo dell’attore e lo sguardo dello spettatore, voce eidetica, che assume in sé, oltre ai significati e ai significanti, anche il più vasto repertorio della gestualità. La voce sola può annullare i valori tradizionali affidati al testo…e dare un corpo fisico delle immagini mentali… saper produrre all’interno della voce delle differenze di voci, delle variazioni continue d’intonazioni, il saper cambiare costantemente il modo vocale…per cui non c’è più bisogno di immettersi o meno nel personaggio come si continua ancora a fare a teatro” (sempre J.P. Manganaro).
Cristicchi rimane vestito in scena praticamente sempre nello stesso modo, indossando una divisa militare e pochi semplici accessori: una borsa, un fucile a tracolla, una coperta, e poco altro. Non ha bisogno di trucchi e orpelli, la sua forza è la voce e il testo, davvero “evocativo”, anche grazie all’uso del dialetto che fa coincidere lo scritto con l’orale. Per dare solo un’idea di quello che (non) succede in scena, ma che arriva dritto allo stomaco degli spettatori proviamo a trascrivere alcuni passaggi dello spettacolo, consapevoli che il sentirsi detto non sarà mai equivalente al leggersi scritto (del morto orale).
Si parte un giorno di luglio del 1941 dalla Cecchignola (la città militare), “oggi se scasa…annamo in Russia a fa’ na passeggiata, pe’ sfilà a Mosca a passo de parata!!”, e mentre continuava “fra tanti il Duce ha scelto proprio voi” Nicola (uno dei soldati) borbottò “ma li mortacci suoi…” e Mimmo fece “poveracci noi!”. L’Italia viene definita “paese dei balocchi” o “de li campanelli, ‘ndo se fanno i discorsi pe’ l’allocchi e se pija la gente pei fondelli”. Chiosa Marcelli: “la verità, purtroppo, è come er vetro ch’è trasparente si nun è appannato, pe’ nasconne quello che c’è dietro basta ch’uno apre bocca e je dà fiato!” (frase che Cristicchi aveva riportato anche nella sua canzone “Meno male”). E a proposito del Belli (il massimo poeta romanesco): “me sbajerò, perché so’ un ignorante, ma er Belli dà le mele pure a Dante! Perché lui te ritratta ar naturale la vera storia de la pora gente sotto all’antica nerchia clericale! l’antri poeti, nun je frega gnente, parleno un itajano artificiale e leccheno er gregorio a chi è potente! E che dice quer loffio der Manzoni? ce sta la Providenza, state boni!”. La musica di “Faccetta nera” accompagna i discorsi del maggiore detto “er panza”, che monta sul podio e strilla “battajone!”. Cristicchi recita tutto il testo a memoria, senza mai leggere. Memorabile quando interpreta il discorso ipocrita del prete dall’altare (“lo spettacolo più triste”): “lo so che Cristo ha detto nun odiate, odià er nemico è un male, è delinquenza! Dovete amallo: basta che sparate!”. Non mancano le critiche taglienti all’operato di Mussolini: “ma allora lui chi era? Era un cretino, o era er maresciallo de l’Impero?! L’avrebbe visto pure un regazzino che l’automezzi nostri ereno zero”, perfino “baffetto” (Hitler) “je scriveva…come pe’dije: bono, nun te move! Ma ‘ndo vai senza l’ombrello, quando piove?!”. Il 18 luglio il battaglione lascia Roma e si mette in marcia verso la Russia, con donne e bambini che li salutano alla stazione: “che je voi fa? Perfino un generale a ‘na madre de Borgo o der Tufello deve da faje tanto de cappello!”, e poi: “ma te pare bello?! Sai che vor dì quer fazzoletto bianco? Che se so arrese ar santo manganello!”. Il 2 agosto il battaglione parte in processione, fanno 30 miglia al giorno, “e che voi che sia se ancora stamo in Romania!”, nel frattempo “piove a callarelle…come se Dio ce pijasse a serciate co’ le stelle!”. Dopo venti giorni di cammino anche per i muli “sona la campana der destino”, e “come li muli fecero fagotto ce rimasero un po’ d’autocarrette de la guerra der quindici-diciotto” fino a che “pure loro so’ schioppati, finisce in groppa a l’omo, l’omo in guerra, l’animale più bestia de la Terra!”. La critica feroce alle ridicole mire espansioniste fasciste: “e ‘sti conquistatori de nazzioni, diventorno ‘na banda d’accattoni!”. L’incontro con i cinesi serve a rispolverare un po’ di sano orgoglio patriottico: “s’ha da esse umani! Mica siamo tedeschi, noi italiani!”, c’è spazio per un briciolo di umanità: “perché er nemico, quanno l’hai incontrato…mica è quer mostro boia e delinquente che t’hanno sempre detto e predicato! È un omo come te…”, e di soddisfazione: “pe’ insegnaje che Roma era già bella quanno er resto der monno era ‘na zella!”. Continuano le feroci critiche al Duce, non senza umorismo: “ma siccome pe’ colpa d’un burino, se stava ar pizzo de la geografia, che je facevi vedè ar cinesino?”, che poi in realtà erano mongoli, che presto diventano facchini, prima di essere portati al campo di concentramento “ma l’avranno trattati da cristiani?”. La bella musica di Areamag introduce il discorso di Gigi contento per aver visto la neve, era il 7 ottobre ’41. Ma il divertimento dura poco, per tutto dicembre “c’era un freddo tanto eccezionale che a sentì loro…nun s’era mai sentito in Ucraina!” (50 gradi sotto zero), “telegrafate ar ministero..che sto CSIR sai che vor dì? cojoni spersi in Russia!”. Comincia ad arrivare la consapevolezza della disfatta: “e ognuno lo capì, co’ un tuffo ar core, che s’annava a la morte o ar disonore”, arrivano i russi e cominciano a sparare. Per lo spettro della fame si mangiano gli animali (gatti, cani, uccelli, ecc) e perfino i muli, “pareva assassinà un essere umano!”. C’era una madre di famiglia ucraina che puliva le ferite e assisteva i morenti, e arriva un momento di vera commozione quando i cecchini sparano a mamma Juliana, “e lei pareva in quel silenzio atroce la madre di Gesù sotto la croce…in guerra manco Cristo è rispettato”. Si torna a casa, pare…”così ce ritirassimo?” Lasciando morti e feriti sul campo di battaglia “coll’incubo d’essese sarvati”, tra freddo e fame. Per tre giorni i russi sparano e fanno strage nella valle d’Arbusciòvo, la guerra è “la peggio ammazzatora de la Tera”. Non si distingueva più tra muli e carne umana, morti, feriti e sciacalli, così uscirono dalla “Valle della Morte”, tra chi “pareva, da morto, urlà più forte”, altro che bestie, peggio, “non c’era Cristo o Dio che l’aiutasse… qui oramai chi vo’ Cristo se lo prega”, fino all’ultimo mulo rimasto vivo, mangiati o scuoiati per riscaldarsi nelle carcasse. Della divisione Torino su 11mila solo 1500 circa si salvarono, gli altri morti e dispersi o carcerati. Simone si siede con la coperta sulle gambe come faceva il nonno Rinaldo, del plotone di 40 ne rimase “manco una diecina”, il solo modo di salvare l’onore era bruciare tutte le bandiere, “e mo’ che brucia, povera bandiera, è diventata ‘na camicia nera!”. Era peggio del giorno del giudizio per Adamo, si videro specchiati in quattro statue di ghiaccio, come mammuth. Gigi ha tempo per un ultimo romantico ricordo delle ragazze, di quando si andava a vedere Ridolini al cinema Pidocchietto, “da qui fino al famija ce so’ da fa’ millanta mila miglia!”, e poi muore. “Vincere e vinceremo!”. Si chiude così l’efficacissimo monologo sulla stupida e inutile crudeltà della guerra, davvero il modo peggiore per onorare e rispettare qualsiasi Patria del mondo.
Alessandro Sgritta
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