Quintorigo: passato, presente e…
Passato, presente e futuro, una magnifica chiacchierata con Valentino Bianchi sassofonista dei Quintorigo. Una lunga storia piena di collaborazioni, l’ultima con l’attrice e rocker Juliette Lewis, e di continui salti tra i generi.
Un passo verso il jazz e uno verso il rock, i Quintorigo non finiscono mai di sorprendere e di creare intorno a se stima e apprezzamento. Due partecipazioni al festival di Sanremo, in cui si sono aggiudicati il premio della critica, e sette album in attivo (escludendo le due raccolte), i Quintorigo sono tra i più attivi sperimentatori della musica contemporanea.
Le origini tour, in cui avete ripercorso le tappe fondamentali del vostro lungo lavoro, e subito dopo un nuovo album. In entrambi i casi avete scelto la voce di Luca Sapio. Com’è nata questa collaborazione?
Stavamo cercando una voce maschile come scelta di suono e anche un cantante che avesse una cultura rock e un retaggio che andasse dal blues al soul, tramite amicizie comuni abbiamo conosciuto Luca, con il quale abbiamo iniziato a collaborare in maniera blanda proponendogli il nostro repertorio. L’abbiamo educato alle nostre sonorità, che non sono facili per un cantante. Abbiamo notato che Luca reagiva bene ai nostri stimoli e aveva una notevole personalità e facilità nella creazione. Da questo, un paio d’anni fa, è nata l’idea di creare un album di inediti. Ci siamo messi al lavoro con una certa concretezza e una certa facilità nella scrittura. Sono nate le undici tracce e ne siamo orgogliosi perché è un disco di svolta.
English Garden è un lavoro maturo in cui si sente forte la sicurezza acquisita negli anni, forse più semplice e più diretto dei precedenti. Perché questa scelta, una sorta di percorso all’inverso?
E’ l’analisi più lucida e il complimento più bello che possiamo sentirci fare, perché noi per tanto tempo, forse a volte a ragione siamo stati tacciati di cerebralismo, di creare musica difficile per un’élite per musicisti e persone colte. Questo non è vero, non era nelle nostre intenzioni. Noi volevamo scrivere canzoni che potessero arrivare in maniera diretta ed emotiva al pubblico. English Garden è un lavoro a nostro avviso maturo, perché coglie nel segno, abbiamo scritto canzoni fruibili, semplici che arrivano al cuore dell’ascoltatore. Il riscontro c’è stato sia a livello discografico che nel live, dove vediamo la gente che si gode i concerti canticchiando i ritornelli. Noi abbiamo fatto il procedimento inverso rispetto all’artista che parte da un linguaggio semplice e poi eventualmente acculturandosi si complica, ricercando una semplicità di espressione che forse è la cosa più bella nell’arte, è un dono che non tutti hanno.
Quando avete deciso di collaborare con Juliette Lewis?
A lavoro concluso. Il disco non doveva avere ospiti, doveva essere un disco rock alla vecchia maniera. Ci siamo interrogati sul fatto di poter includere un featuring e abbiamo pensato a Juliette che avevamo conosciuto in Italia quando è venuta in tour con la sua band. L’abbiamo contatta via mail e le abbiamo inviato il nostro materiale. Lei ha apprezzato molto i nostri lavori, ha accettato ed è stata tre giorni con noi. Juliette è un donna molto carismatica, continuiamo a sentirci e speriamo di poter presto suonare insieme.
Sappiamo che di recente avete suonato a Londra e state per tornarvi. La scelta dell’inglese è mirata alla conquista del pubblico europeo?
In parte sì, dopo tanti anni di frequentazione del suolo nazionale ci piacerebbe andare all’estero. L’inglese è anche motivato dal fatto che volevamo cambiare il più possibile, la parte testuale è un elemento importante e in più l’inglese è la lingua del rock, e questo è il disco più rock che abbiamo partorito. E’ stata una scelta quasi obbligata.
Facciamo un salto nel passato. Come si è strutturato il percorso in cui avete deciso di snaturare i vostri strumenti e proporre un genere così insolito?
Dobbiamo andare alla genesi del nostro progetto: noi ci siamo conosciuti come giovani studenti di conservatorio e abbiamo iniziato a strimpellare in una band dall’organico consueto. Poi ci siamo resi conto che suonavamo anche strumenti più sofisticati e utilizzandoli anche in maniera snaturata e perciò di poter creare qualcosa di nuovo, sia a livello di sonorità che d’immagine. Da qui è nato il Quintorigo che non è mai mutato. Tranne diversi cambiamenti di vocalist. Il quintetto è una formula difficile da far funzionare, ma di sicuro unica e vincente con una certa immodestia ci siamo resi conto che siamo stati un riferimento per altri musicisti. Sono passati gli anni, abbiamo fatto tante cose, ci siamo spostati sul jazz, per poi tornare al rock e abbiamo avuto anche una storia tortuosa. Però il tutto ci ha portati a uno stato attuale di maturazione e di soddisfazione e anche di grande fertilità, perché ci sentiamo ancora giovani da questo punto di vista.
Tra i vostri progetti musicali avete inoltre deciso di proporre un repertorio jazzistico che riassume tutta la storia di Charles Mingus. Perché, tra vari personaggi di uguale importanza, avete scelto proprio lui?
Per diversi motivi: innanzitutto perché Mingus è un autore incredibilmente interessante e attuale. Le sue pagine sono molto belle, quindi Mingus compositore è uno dei pilastri della musica afroamericana del secolo scorso.
Nonostante ciò non è un autore particolarmente ripercorso quindi avremmo avuto pochi paragoni. Mingus in generale è poco ripercorso dai jazzisti proprio per la sua difficoltà forse, e per il suo atteggiamento burbero. Il mondo del jazz italiano ammira Mingus, ma tende a non riprenderlo. Siccome a noi piacciono le cause perse ci siamo avventurati in questo universo ed è stata un’esperienza incredibile sia la realizzazione del disco, lo studio filologico della sua opera, ma anche il tour che abbiamo fatto prima con Luisa e poi attualmente con Maria Pia De Vito e i riconoscimenti che ne sono scaturiti. E’ un motivo di vanto per una band tutto sommato outsider, noi non siamo jazzisti veri e propri. Tutto questo ci avvicina a Mingus che era un personaggio eclettico, mescolava l’antico con il moderno precorrendo i tempi. Ce lo siamo sempre sentiti molto vicino. Mingus era anche un personaggio di grande spessore e impegnato politicamente, un pacifista convinto. Sono ideali estremamente attuali, che lui ha raccontato con la sua musica. La sua autobiografia ci è servita da ispirazione.
Paola D’Angelo & Erica Gasaro
Foto di Daniele Rotondo
Erica Gasaro, interviste, martelive 2011, martemagazine, musica, Paola DAngelo, Quintorigo