PITTURA_ Madame Decadent, il becco inchiodato e il lifting della morte
Madame Decadent, aka Katia Stefani, col suo look stimolante che già è un guizzo nella serata di accesa concentrazione, propone immagini vissute, consunte ed estranianti di soggetti, preferibilmente donne, che emergono da un sofferto esistenzialismo simbolista, a partire da una silhouette di donna nuda col cuore sanguinante su fondo argenteo abbozzato, immaginetta con lo spirito di Odilon Redon ma trattata minimalisticamente.
E poi, un misterioso ritratto nevrotizzato da mille pennellate grafomaniache da scrittura automatica in trance baudelairiana da assenzio, che nascondono gli occhi in un’ombra incisa per rivelare lo sguardo orgoglioso di sé e delle sue abissali profondità. Ieri sera, martedì 4 maggio 2011 nel suo setting performativo, ha prodotto il primissimo piano bianco/nero e rosso di una donna in cui la territorializzazione espressionista del volto si articola in una superficie tormentata in cui l’artista misura l’istintività dionisiaca della sua prassi celando l’immaginario decadente in un’enfasi gestuale che cuce con graffi la bocca del soggetto e incide lo sguardo, perso in un’innocenza torturata. Il suo post-gotico contemporaneo si impone deturpando dapprima l’im-magine così ottenuta, con applicazioni di carta lucida fissata con la cucitrice; atto forse poco condivisibile, ma in fondo siolo una fase di una poiesi innovativa: l’atto di negazione del primo strato, conduce ad una nuo-va dimensione della ritrattistica, in cui il colore sgocciolante ristagna in una sorta di panneggio incollato di buste di plastica, un materiale utilizzato per la prima volta dalla conturbante Madame proprio ieri all’Alpheus, al suo ritorno sulla scena artistica.
Walter Galindo è un reduce dalle mostre della galleria Mondo Pop intitolate “Vinyl Pop” e “Sk8 like canvas” (nella seconda ha venduto tutti e tre i pezzi presentati), ed anche al Marte Live ha esibito esemplari di valore feticistico-pop assoluto, come un disco di vinile con un orsetto, il Killer Teddy, che rappresenta il suo marchio di fabbrica, iconico personaggio tra onde di derivazione giapponese, alla Hiroshige, e motivi ornamentali bianchi a ruota: Ma c’è anche un modellino piuttosto grande di vagone ferroviario che gli ha permesso di ri-sparmiarsi appostamenti notturni in ferrovia per eseguire graffiti su treni veri, con l’incubo delle mostruose multe minacciate dalle forze dell’ordine. La tecnica, lucida e smaltata, è sorvegliata e accuratissima, ottenuta con uniposca e pennarelli similari, ed è frutto di una evidente passione oltre che per i comics, per gli oggetti-bersaglio dei desideri giovanili, come lo skate rosso scheggiato su cui dal vivo ha certosinamente riportato un’altra delle sue scene agrodolci, miniature contemporanee, ricami dell’infanzia tracciati con senso critico ed estetico molto adulto!
Anche Flavio Carbonaro Solo è uno street-artista, ma conosce declinazioni diverse: dipinge ad acrilico con fluidità panoramica ed un cromatismo pastellato chiaro e disteso scene da ipotetici film di Lynch, come lui stesso riferisce – girati ancora più a casaccio di quanto il geniale regista sia disposto a a confessare pro-vocatoriamente. La simbologia di Carbonaro Solo non è cosciente, ma lascia che lo spettatore sviluppi le sue connessioni più o meno logiche, a parte forse il ricorrente balenottero talvolta radiografato per metà sino allo scheletro, da cui si può desumere il forte residuo con la placidità placentare rappresentata dal più gran-de mammifero vivente, sospeso in volo su città oniriche così diverse da quella Roma in cui, se un artista pre-para la sua opera su carta e la affigge sui manifesti ordinari, dopo due giorni finisce tra i rifiuti, a differenza di quello che accade in altre città europee, più accoglienti nei confronti di tali pratiche promozionali. Tra lottatori di wrestling, versioni riprogettate di Piazza S.Pietro e missili forse arabi, il surrealismo lieve dell’artista si ori-gina dalla conpresenza di elementi di allegorie slegate ma animate da pennellate disinvolte, free style.
Rocco Cerchiara dopo aver preparato le sue tele con pittura lavabile per pareti di gabbie di cemento, stesa con brutalità spatolare, gli infligge le sue visioni focalizzate, senza sfondi descrittivi o dettagli narrativi, di figure spesso crpulente di donne che sfogano l’insoddisfazione tagliuzzandosi, in attesa che qualcuno le mutili. D’altronde, non è agevole sopportare l’idea di essere finite in un quadro di Cerchiara, che ha sempre avuto un debole per le alterazioni e gli interventi chirurgici random, sempre analizzati negli altri, è ovvio. “A molta gente piace essere abusata”, riflette l’artista, e perciò si prefigge di diventare presidente del mondo relegando il Berlusca ad una sterile opposizione in un limbo maleodorante, per poi infierire (forse) solo pittoricamente su tutti quegli insaccati umani sui cui carnosi volumi egli già da ora lavora con sapienza e senso pieno della composizione, volti negati da masse oleose di capelli scuri, e schizzi che si intrecciano alle pie-ghe/piaghe, ulcerando anche lo spettatore, mostrandogli tagli e ferite che i suoi soggetti si infliggono da soli o a vicenda con le loro protesi ad artiglio, o con becchi di metallo a placche inchiodati sulla faccia e non privi di realisticissimi riflessi metallici. Espressionismo eroicamente anti-didattico, tono fantapoliticamente profetico, estetica boteriana sadomaso, inquietudine cyborg suicida, e perfino incontrollato istrionismo da matta-tore del mattatoio (vedi il rapporto disinibilto dell’artista col pubblico).
Elena Fortuna con “Stare at the abyss” pone al centro di un abisso caleidoscopico-psichedelico di forme tra il biologico ed il cachemire lo sguardo intenso ed intrepido di chi osa confrontarsi con quella dimensione, che allude ai frattali di un futuro in cui la carne sarà strettamente coniugata con le onde radio e le virtualità in-formatiche. Che poi l’artista realizzi queste visioni con l’acquerello su carta, ma rinforzandole con segni gra-fici sottili piuttosto fitti (china), vale a sancire l’alleanza tra le sue “due personalità”, come lei stessa ci confida, formate in due percorsi artistici paralleli. “Death makes you beautiful” mostra il dispendio energetico senza avarizia con cui la Morte procura un asimmetrico lifting ad una sua vittima privilegiata, ora divenuta sua funerea sorella: il tratto è ricco, il lavorìo fitto e neo-barocco è gustoso, i nervi ed i denti allo scoperto so-no la manifestazione di una chirurgia creativa che crea bellezza con la decadenza da disegnatrice inquieta. Il dipinto eseguito dal vivo in rapidi tocchi diluiti al punto giusto si carica poi anch’esso di nervature grafiche, a definire arcate neogotiche di un ambiente fantascientifico gotico alla H.R.Giger, ideale sfondo per un busto segnato da buchi, ottenuti per squagliamento nel fluido di Alien, in cui si scorge lo spaccato d’un cuore enor-me, mentre gli occhi sono schermati da due enormi occhialoni di quelli usati per il bungee jumping ma abilitati anche per l’interconnessione con il proprio surrogato come ne “Il mondo dei replicanti”!
Giulia Ferretti si è concentrata, all’Alpheus, nella accurata definizione di un rapace, fascinoso nel suo dispiegare le ali in modo asimmetrico, forse contratto, nel lato oscuro dell’esistenza. La cura del dettaglio, prima a matita e poi ad olio, unita allo sguardo di brace del volatile, rimandano ai momenti notturni che si prolungano, come queste ali, restando incollati agli occhi rossi degli insonni e dei tormentati che però mantengono lo spirito libero dalle gabbie. Nel brillante trittico, invece, la Ferretti ha esposto una visione gran-dangolare di un mondo incantato in cui le diverse atmosfere trascolorano l’una nell’altra con una poetica de-licata profondamente ispirata da Madre Natura e apparsa in sogno alla coppia di dormienti sdraiati al cen-tro, coperti da coltri musicali sotto cui hanno visioni di spazi più ampi e dettagli surreali, ed immaginano la morte come una minaccia ancora tenuta a distanza dall’afflato panico, tant’è che la falce sgocciola un blu che è so-prattutto mestizia per la tendenza dell’uomo a rovinare tutto accumulando cadaveri (o scorie tossiche) sotto-terra, e qui ci riferiamo alle opere che Ferretti ha spedito a Marte Live ai fini della preselezione.
Diana Novelli ha una formazione da illustratrice-fumettista preparata alla Scuola Romana del Fumetto, ma ha tutta l’intenzione di dimostrarsi versatile, essendo ormai chiaro anche alle generazioni dentro la culla che la flessibilità ci viene imposta anche coi pennelli in mano. Novelli ha portato nella sala pittura due piccoli ed iperrealistici ritratti su carta ed un analogo primissimo piano di una tigre, con il pelo perfettamente reso, ma dal vivo si è dedicata ad una più pittorica rappresentazione del “dolore visto dagli altri”, una figura stilizzata, giacomettiana, crocifissa ma dalla valenza assolutamente laica, articolata simmetricamente su una tela e tre fogli di carta acquerellabile. La stesura del colore è diafana sulla figura, quasi prosciugata dal martirio, più corposa e pesante sullo sfondo terroso, mentre le ferite sono piccole applicazioni di materia, dettate dal pudore di incidere ancor più sulla visione, ed il tramonto è un acquoso stingersi aereo della sabbia che circonda questo “Simon del deserto” su cui qualche demone o qualche carnefice umano o qualche trauma ha prevalso.
Antonella Farinaccio ha esposto dei lavori ad olio di genere figurativo piuttostoi tradizionale ma di diversa ispirazione: un fiore, forse un tulipano un po’ aperto, che diventa quasi una presenza plastica tra forme a-stratte; uno scorcio d’una cittadina umbra visto dalla stretta e alta finestra della torre di un campanile con tanto di campana visibile – dettagliatissimo il gioco di mattoni e tegole dei tetti, non altrettanto fluido il cielo; e infine il lavoro realizzato durante la serata dell’Alpheus: un tramonto tra colline verdi dipinte però senza pas-sione, in cui l’albero, dipinto con tratti incerti e con la chioma suddivisa in tanti ciuffi che sembrano nuvolette grigie (c’è forse, dietro, unas sibologia buddista?), si staglia sopra un cielo le cui nubi, tinte dal sole morente, assumono una colorazione calda ed una pastosità e compattezza non comune, la cosa migliore del quadro.
il_7 – Marco Settembre
3 maggio 2011, Antonella Farinaccio, Diana Novelli, Elena Fortuna, Flavio Carbonara Solo, Flavio Carbonaro Solo, Giulia Ferretti, Katia Stefani, marco Settembre, Marco Settembre- Il_7, martelive 2011, martemagazine, pittura, Rocco Cerchiara, Walter Galindo