L’autoironia, gli elettromanichini, la rinorrea, l’Appennino
[IL_7 SU…]
Popmatica, non dovevo dirlo io, ma già a fine 2009 li avevo trovati ad un livello in cui potevano anche “fare tutto, farlo male” (“Meglio sbagliare”) perché una volta accorciati tutti i loro incisi in modo da non farli arrivare ai quaranta secondi, avevano ottenuto che tali incisi crunchati arrivassero al cervello e al cuore entro i primi due.
Se con ciò avevo indovinato tutto dei loro retroscena, non era solo perché mi avevano fatto effetto i loro effetti spettrali, perché l’elettropop non si fa con la Lottomatica da sola, servono testi che assoggettino la volontà degli ascoltatori e fluidità da far all’occorrenza ballare il tip tap anche mentre si sta in autobus con l’I-Pod nel thermos. Con impulsi chitarristici rotondi, sostegno ritmico affidabile, basso puntuale e non mono-corde, Popmatica non produce il pop come “genere”, e tantomeno quello generalista; piuttosto “modella il tempo come creta” ed io “In piena assenza di rumore”, “dovrei parlare di cosa?”. Forse d’un senso d’inarre-stabilità che promana da certe evocazioni melodiche sofisticate anche emozionalmente, assistite da arran-giamenti a cui non fa difetto nè l’arpeggio incantato nè l’incedere sicuro e sodo, misurato tra insurrezioni strumentali e cori coinvolgenti, che concorrono a comporre un muro del suono istituzionalizzato da un EP autoprodotto, “Meglio sbagliare” in vendita su ordinazione e su I-Tunes, ed ora da un album prodotto dai Velvet, band pop italiana per eccellenza, per la Teorema, intitolato “Anche Beethoven è pop” proprio per alludere alla capacità del pop contemporaneo di assumere spessore elettro-sinfonico, restare in testa per una vita, restare per secoli nelle classifiche, e diventare dei classici senza tempo ma con ritmo: “Ma come hai potuto fare tutto questo”, compreso i contrappunti? Una NewWave si può re-incarnare, usando solo i suoni accattivanti e la sapienza produttiva? Direi di sì, se c’è anche lo spirito di giorni nuovi in cui tra il digitale e le nacchere… è “Tutto troppo logico”! L’unico problema risulta l’assenza non del rumore ma di divagazioni strumentali più snodate e lunghe… “non lasciarmi senza…” Ma forse ci penseranno, anche senza rinunciare al pop. Si può fare! E loro sanno cosa intendo, perché qualunque sia l’atmosfera da loro esplorata, ricercano la melodia senza ricadere nel baratro della banalità ma anzi non privandosi mai di una certa ricercatezza, in cui si col-gono, pur nell’ossessionante timore di eccedere, le affinità con le loro importanti influenze nazionali (Battiato, Subsonica, Gazzè) ed ancor più internazionali (Beatles e Zeppelin, Genesis e Queen, molta new wave, ColdPlay, RadioHead). “La fabbrica” si gioca inizialmente su un riff di elettronica robotica in conso-nanza con la voce fluida che solleva la sua supplica carica di un’umanità bisognosa di innesti artificiali e di rinforzi chimici, metafore di dipendenze psicologiche, con cui fanno il giusto attrito meccanico le chitarre ed il basso: “Fabbricami adesso un nuovo desiderio, sono in crisi d’astinenza, non lasciarmi senza!” “Mai come te” prende le mosse da una pensosità accennata con un arpeggio spray, poi si rinsalda con un colpo di reni e squaderna strofe in cui un giusto orgoglio segna le distanze da un contromodello morale: “Giuro che non sarò mai come te… sarà anche grazie alla mia autoironia che mi insegna la via”: l’apertura è ampia, dotata di grande limpidezza, ed è ben collegata allo sviluppo strumentale intermedio, segno di una maestria da Festi-val di San Remo (sono stati in lista per la selezione giovani 2010) ed oltre, come testimonia anche il giro chitarristico visionario di “Assuefazione” ed il senso di sospensione che ne discende, nel prosieguo: “Guarda quante cose sembrano normali, qui…”; sono loro a farle apparire normali, ma sono timbriche molto evolute, che saziano mentre intrattengono.
I Runa Raido, ormai cooptati indissolubilmente nelle Scuderie MarteLive, propongono con “Nero” un rock sanguigno e carico che inizia da un andamento cieco a tentoni di un tale che si accartoccia con ritmi para-noici contro la propria abulìa sociopatica: “Famelico demente, depresso, quasi assente, mi svesto della gen-te”, e poi si infiamma alzando la voce convincente contro il parossismo netto e ben arrotato (“Non è il tempo il metro, non si calcola l’odio”) di una struttura evoluta attraverso rimbalzi chitarristici fino all’esplosione del macinato di bile con acuti spasmi espressi dai sibili del distorsore. Il gruppo è stato premiato per il miglior testo al MArte Live 2009, e questo depone a favore di un gruppo carico che definì il suo primo EP uno scatto di nervi alla ricerca di uno stile che in nuce già c’era. In “Cambio di modalità” il cantato, in frasi spezzate a metà, scatta anch’esso come una molla, protetto da un involucro di suoni graffiati e da un drumming variegato che sostiene mitragliando negli interstizi. “Viola Valzer” si sposta dall’iniziale botta e risposta tra basso, chitarra e batteria (poi ricorrente), ad una sezione andante alternata a rimuginii cantilenati ed incanti presto erosi da ruvidezze indie su cui infine la voce impiglia i suoi versi ben più che inquieti: “Febbre e sete di collera che non trova pace, mi droga il sangue!..” E meno male che ogni tanto “Porto via la scia della mania”. Ma sembra che sia quella a calmarlo: “In casa ritrovo un po’ di tranquillità, le mani stanche, gli occhi gialli”; il protagonista sente di non poter stare al posto suo e lo ammette poco serenamente, ripetendo “No-no-no-no…” Con “Elettro-manichini” usano una nenia dal sapore provinciale e contadino come impalcatura per costruire un intrico di progressioni e solfeggi chitarristici a cui fa da sussidio vocale un incalzante conca-tenamento di frasi da manichino di fattoria a cui è stata instillata un’escalation fattoriale alfa-numerica, infor-matico-rurale, da ingegneria della pasta sfoglia come pelle scorticata, o elettroshock per ovini dissidenti; con l’avvento dei robot capiteranno anche queste cosacce, alla famiglia del fattore? “Prospettiva Nevskij” (cover) unisce al gelo dell’inverno russo e alle strofe di Battiato un arpeggio teso e contratto che si sviluppa dopo l’apertura allarmata che lampeggia sotto un cielo fosco, e la scarica chitarristica ribelle si stacca dai covoni di fieno imputriditi nel fango gelato e va a far rima con l’”Ottobre” di Eizenstein. La ruvidezza dell’approccio garage rimanda alle cantine e alle tipografie clandestine in cui a Pietrogrado e Mosca i soviet preparavano la rivoluzione. In “Festina Lente” il ritmo è galoppante e la voce noncurante ricorre al falsetto per notificare l’in-soddisfazione ed il senso di ridicolo che fa propendere infine per la non partecipazione ad “una festa di quat-tro contrade – non ho voglia di festa stasera” in cui ogni cantone si fa i suoi affari ed al gioco delle parti sem-bra tutto prevedibile: “Suona un’orchestrina da lontano, qualcuno agita una mano. Domani poi ti ascol-terò…” “Seta” è il check up dello stato dell’arte melodrammatica tra due amanti “fatti di plastica”; l’arpeggio è vivido e malinconico, perso nella fragilità della poesia di una bellezza unico appiglio “sei la vita mia”: l’incanto acco-rato di chi si ritrova, “uno strato di cera sul volto”, vaso di coccio tra vasi di ferro, è espresso dai rallentamenti in cui l’armonia cresce struggente mostrandosi davanti alle madame e ai monsieur mentre tutta la vita e-splode in pubblico senza un sostegno di pietà, e “la strofa cede alle gambe”, spettacolo patetico descritto dai Runa Raido contenendo la reazione sdegnata. “Doira” è la cronaca unilaterale dal ritmo andante rock di un incontro freddino tra due ex amanti: “Guardati indietro e piangi perchè non c’è più bisogno di una buona ragione – non ce n’è, una passione – non ce n’è. Guardati indietro e piangi perchè non c’è più bisogno di una uah-uah uah-uah”. Ed insomma: “Siediti accanto e parlami se vuoi, sarò dolcemente distaccato”, come la voce di questo gruppo che articola ritmi spesso su scale in cui le ripetizioni armoniche suonano come accordi nervosi di un temperamento ricco di semitoni e disinvoltura acidognola sciolta in un assolo lunatico e fluido, nella sua brillante corposità. Il loro CD “Per ritrovare la quiete” appare ottimo per recuperare la pa-dronanza delle emozioni attraverso fremiti variegati di alternative rock grumoso e sensibile.
Virika in “Guardati allo specchio” cantano “incredulità su ansia e disperazione” su di un riff che son rintocchi fatali sopra e intorno ad una voce e a un sound corposo: “Lei ti odia ma continua a tagliare il pane”, lui si guarda allo specchio ma non si riconosce; cos’ha fatto con la brunetta arroventata? Con più di un accenno di distorsione i Virika la mettono giù soda e sonora, come quando “lei disse: sognerai; lei disse: son cazzi tuoi!” Un assalto massiccio alle roccaforti della perenne pornografia mentale maschile, forse; ”Torni a casa e trovi un sogno che ti sta aspettando, ti indica la strada che tu non seguirai!” Un abrasivo deterrente nei confronti del matrimonio? Anche “Sola senza un senso” è una furia audace, che non si lascia asservire dalle nenie pop ma grida la sua drammaturgia acida con una voce possente sulla scorta dei primi Litfiba: ”E cerco i sogni miei negli angoli più bui”; c’è anche un assolo, anzi due, che spargono sugo su un’ossatura livida senza infiocchettamenti. “Missioni di pace, missioni di morte, Alessandro voleva vivere..! Se apri la porta e vedi che non c’è niente non sei morto, è che non sei libero!”. La vibrazione è incessante, è una metropo-litana spinosa che non passa sotto i piedi, ma romba nelle orecchie, il cantato spinge al massimo, la batteria mitraglia ritmo con veemenza, per raccontare la storia di rovina e solitudine pagata cara: “Ti senti libera ma stai già gridando, strisci a terra mentre ti scalciano, sono io quello che non ti salverà. Ti senti libera ora, non come quando sei con me!” “Sorriderò” è la certezza ironica di chi vede tutto nero, ed heavy, senza un im-piego stabile (“Mentre il tempo inesorabilmente passa”) ed un piede nella fossa, ma resta convinto di non vo-lerla dar per vinta, forse al burocrate e al legislatore parassiti, che infatti soffrono da matti queste sven-tagliate furiose di chitarre, carrucole roventi su cui si arrotolano pensieri rabbiosi in libertà, come se si inca-nalassero su “Sentieri di vendetta” in cui le sei corde si grattugiano l’una con l’altra rispondendosi con ritmi e riff tesi senza saziarsi di sarcasmo in ebollizione e rinorrea di catrame!
I Sufi Garage, consapevoli che il sufismo non prevede una classe sacerdotale o altri intermediari tra la divinità e le sue creature, si sono forse chiusi in un garage arredato come un tempietto dedicato alla musa Euterpe e hanno scelto, come guida remota alla loro personale indagine sulle fonti dello spirito, il sublime e maniacalissimo Robert Fripp, citato ambiziosamente tra le loro influenze. La ricerca spirituale così condotta è una dura impresa, e per non cadere preda degli interessi mondani, i componenti del gruppo si sono rivolti alla musica, perchè se Hasan al-Basri ha affermato che il mondo è un ponte sul quale si passa, ma su cui non conviene costruire nulla, creare musica consente di costruire se stessi attraverso un’autodisciplina ma producendo qualcosa non di materiale, bensì virtualmente inafferrabile come le onde dell’oceano o il naso dell’ippogrifo, con rispetto parlando. Comunque, dopo il periodo delle reinterpretazioni dei brani di Battiato, con cui il gruppo è giunto ad avere contatto diretto, la svolta più rock-sperimentale li ha portati a cantare “Vado al mare”; sembra una conseguenza inaspettata e paradossale, ma c’è di mezzo la voglia di creare dei cross-over cantabili in italiano, con una irruenza indie rustica, due voci che si si rispondono in un bluesone hard d’altri tempi, e le scariche a sagomatura rigida della chitarra nel mezzo, con l’assolo spettrale e deviato, sopra un corposo tumulto ritmico (ottima la batteria). “Maledico me” è ugualmente ruspante, e la chitarra rit-mica sembra più rock’n’roll, a parte l’accavallarsi ricercato del galoppo di tanto in tanto, e poi il rallentamento con il decollo della chitarra dalle ambizioni schizoidi ed il ritorno alla rabbia autodistruttiva, che “fa scena” e fa sentire più vivi di chi si piange addosso e si succhia l’alluce! “Veleno” è il pezzo in cui le sonorità, oltre al fraseggio chitarristico, sembrano all’inizio più crimsoniane, e poi strabordano in un rock distorto e poderoso, mentre la voce rimbomba negli spazi delle proprie attese a cuore infranto, dando una coloritura soda e ban-ditesca allo sfogo. Anche “Sono quel che sono” vanta una struttura macinata dentro a un pozzo da un’entità coi denti spezzati ed una voce da mastodonte dell’Appennino; le deviazioni chitarristiche si fanno tromba d’aria virulenta, sviluppata da una serie di sordidi ripiegamenti della pianura concimata, espressi dall’av-ven-turoso avanzamento di basso, batteria e chitarra verso un orizzonte irriconoscibile per i contadini che non conoscono i rifugi anti-atomici. “(Questa è la) Farsa” è invece la furia dissonante, impostata su un riff di-chiaratamente hard-rock, di chi nei bridge dice “levatevi dai guai” ma poi sparla di questo governo, accen-nando appena, con mirabile cautela politica, al “marcio”. Oh, per Giove, ma come è mai possibile? “Rosa nera” è una registrazione live che spiraleggia intorno ad un arpeggio ipnotico da carillon maligno chitarristico, poi la distorsione si divincola da una normalità che non ingannava i creduloni, e porta su di giri la voce; e se poi si torna alla strofa è solo per poi impegolarsi su sbilenche armonie del delirio nell’assolo allucinato, a cavallo del quale l’emozione si fa pornoigrafia dell’anima inquieta che confessa di aver predicato a letto un amore difficile “fino a farmi male”. In effetti, capita! “L’inganno della libertà” è una parabola dolorosa ma con un ritmo andante, rassegnato a vivere senza poter lasciare la porta aperta sotto casa e girare in bicicletta senza essere ammazzato e sentire John Lennon alle 4 del mattino. Il finale strumentale chitarristico, avvitato su una tale scomodità esistenziale, induce a riflettere sulla Quarta Via del sufismo, quella “dell’uomo astuto”, che consiste nell’armonizzazione dell’uomo in tutte le sue parti costituenti, permettendogli di continuare la propria vita quortidiana normalmente, magari registrando degli EP senza pensare a Cicchitto!
il7 – Marco Settembre
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