Koroibos: emozioni in scena
ROMA- Una vera tragedia in puro stile greco antico, ma rivisitato e corretto alle negazione dell’essere dei giorni nostri, Koroibos, lo spettacolo della Compagnia Whycompany, scritto da Gennaro Francione, andato in scena lo scorso 2 e 3 aprile presso l’Auditorium Paolo Stefanelli di Roma.
Il pretesto della vicenda l’umanità segreta di Koroibos, l’atleta di Lussino, primo vincitore olimpico nell’ VIII sec. a.C. che si presenta agli occhi degli spettatori non nelle sue virtù, “citius, altius, fortius”, stereotipi del vincitore olimpico, bensì nell’indole viziosa rappresentata in maniera forte dal sesso, dal vino e dalla bramosia di fama e potere.
In scena tre attori e quattro danzattori sulla regia di Giovanni Impellizzieri e Valentina Versino, anche coreografa.
Personaggi chiave della vicenda sono le emozioni umane, che prendono forma in Koroibos (Stefano Guerriero), in Pittaco (Federico Melis), in Callipatera la madre di Koroibos (Deborah Fedrigucci), i tre attori della compagnia che si muovono con sapienza ed inventiva su un palco decisamente sperimentale, mentre il Coro è messo in scena dai danzattori (Valeria Loprieno, Paola Bonazzi, Giovanna Rovedo, Valerio Porleri) e diviene espressione visibile e tangibile dei sentimenti che animano la passione ed il dolore di Callipatera. E’ proprio dal Coro danzante che tutto ha origine e ritorno: il singolo e la folla, la legge umana e divina, il consenso e il dissenso, l’ira della bestia e la compassione dell’angelo, la verità celata in segreto, la voce e il silenzio. In un caleidoscopico gioco tra il teatro e la danza, in cui il Coro è come il vaso di Pandora, all’interno del quale il materiale umano si fa e diviene nello spazio in movimenti semantici.
Rispettando i dettami tipici della tragedia greca che vedono il mythos (μύθος, parola, racconto) fondersi con l’azione, cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶμα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte che agiscono autonomamente sulla scena (σκηνή, in origine il tendone dei banchetti), provvisti ciascuno di una propria dimensione psicologica, il dramma presentato dalla Whycompany prevede la coesistenza e coidentità di ruoli stabiliti e non, cosicché lo spettacolo è ricco di intensi momenti di autentica ricerca drammaturgica, dove i limiti tra parola e corpo vengono superati dal “danzattore” a favore di nuove espressioni corporee.
I limiti della danza vengono superati dalla parola recitata e dalle azioni sincopate e ripetitive che divengono pilastri del gesto e trasposizioni tangibili delle emozioni, mentre il recitato si estende dalla classificazione di genere contaminandosi nel movimento, dove tutta l’energia creativa è focalizzata sull’unico obiettivo di comunicare.
La contemporaneità è un luogo caratterizzato dalla contaminazione, dal melting pot, dalla presenza di più elementi che si fondono insieme per dare come risultato qualcosa di nuovo, che dà nuova linfa vitale alla forza coreutica e recitativa. La tecnica di ascolto del proprio corpo e dell’ambiente, di interazione con altri corpi, grazie alla quale le idee e i concetti possono essere trasferiti al corpo e lì elaborati per realizzare il materiale coreografico inserito nello spettacolo, attraversa l’improvvisazione creando per ogni danzatore un proprio specifico linguaggio che si interfaccia con le diverse qualità di movimento e ricerca. Le differenze fisiche, strutturali, divengono quindi una risorsa inestimabile da assecondare e da approfondire, che permette una nuova ricerca del sé e del significato e significante di ogni gesto.
Le emozioni cavalcano la scene e si fanno scarpe, vestiti che volano, divenendo corse avanti e indietro alla ricerca del perduto benessere interiore di Koroibos e di sua madre. I fili di lana che segnano il finale i sentimenti che tengono legati i due e che collegano la mise en scène con la forza espressiva del corpo e degli oggetti. Il superamento dei limiti fisici diviene immaginazione e l’immaginazione si trasforma con semplicità in un evento unico ed irripetibile dalla grande forza espressiva, che coinvolge ed avvolge lo spettatore in una ricerca che respira nello spazio scenico, con l’intento di scoprire quello che accade nel momento stesso in cui accade.
Il superamento di sé, il lasciarsi avvolgere dalle tenebre del successo, la ricerca ossessiva della perfezione, la perdita di una ipotetica “via della luce”, la rinuncia agli affetti sinceri, il cedere alle lusinghe sono elementi che pur nascendo in un tempo lontano hanno una attualità decisamente sconvolgente che rende questo spettacolo altamente espressivo e decisamente emozionale. Da vedere assolutamente, insomma…
Edyth Cristofaro
Foto di Federico Ugolini
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