Le sinusoidi, l’irradiazione, gli hipsters, il tartaro
[IL_7 SU…]
Probabilmente stanca che tutti la chiamino Vale quando lei sa benissimo che vale, e non solo perché uno spot qualsiasi dice “voi valete”, Valentina Certelli ha deciso di presentarsi come Tina, o come Tinà, giusto per destabilizzare i francofili a tutti i costi che si son comprati il CD di Carlà Brunì.
“Il mio corpo umano” inizia con un giro armonico blueseggiante di chitarra, ma poi il registro si sposta su morbidezze cristalline a tutto tondo: la voce è carezzevole, il supporto pianistico esprime una riflessività calibrata sulla garbata autoanalisi, come il resto dell’arrangiamento, che prepara il finale alle estensioni vocali maggiori, con note mantenute in un’ondulazione libera ma pensosa. “Che succederà della mia vita se smetterò di ridere… la mia condanna è la mia identità… unica soluzione è essere invisibile perché il mio colore è una minaccia per la società…”, e figuriamoci la voce: Tina cantando l’umanità del suo corpo riscatta la fisicità come ancella del pensiero, e cambia le tonalità, ma soprattutto prolunga le vocali creando mirabili ponti aerei tra le sillabe. “Dove non c’è il sole” inizia con una cadenza pianistica che fa compagnia ad una fanciulla che ha bisogno di evadere, l’atmosfera rarefatta è solcata da una presenza femminile che si dibatte in una dimensione angusta e troppo buia, e la sua invocazione di qualcuno che la aiuti ad “uscire da qui” è piena e corposa senza indulgere in esibizionismi troppo marcati. L’arpeggio all’inizio di “La finestra” è il corrispettivo di parole cantate con grazia come fiocchi di neve e di frasi visitate da questa voce come se fosse un vento tiepido, che scioglie i fiocchi di parole in sinusoidi di armonia, chiuse da un pizzico di chitarra slide: “Oltre questa finestra… Quanti motivi inutili per illudermi che tu sia ancora qui… vorrei chiederti un minuto ancora per sentirti dire che non c’è freddo qui con me”, una dose di metafisica indie-folk si unisce alla trepidazione vibrante per un amore da sopravvissuti al freddo esistenziale. Anche su “Il cielo è basso” la cadenza jazzata instaura un clima adatto ad una meditazione contemporanea, e la voce si libra a cercare “il desiderio nelle tue parole”, finendo con l’evitare brillantemente con vocalizzi che “questo cielo di perla pesi sul mio mondo”, e gli strumenti impecca-bilmente sostengono l’identità umbratile di una creatura a cui serve ancora un altro po’ di coraggio per superare quelle paure che non sono lì solo ad aumentarne il fascino. “Diversi” è un altro pezzo in cui il garbato virtuosismo dell’interprete rifulge: “Ascoltami, guarda le mie mani contorcersi per l’emozione di aver-ti qui”; i due corpi, quello strumentale, e la voce gorgheggiante, si uniscono, si amano, pur così diversi. “Vertigine” ha dei tom di batteria a scandire il tempo profondo di un brano sulla facilità di “lasciarsi cadere”, dato che “la vita è imprevedibile, ma la tua forza è saper lottare… proverai a sorprendermi”; ancora una volta la continuità del discorso narrativo è contraddetta da una diversa fluidità, quella dell’esercizio vocale instan-cabile di un’anima che si interroga senza posa sulla plasmabilità della musica più eterea e sulla clonazione infinita di melodie incerte che risentono della frammentazione dei pensieri, oltre che del conforto discontinuo dell’amore.
Erem Davi Q è un’entità collettiva i cui componenti risultano sfuggenti, sulla loro biografia sul myspace; insi-stono sull’energia della creazione come appannaggio di diversi soggetti, in un ciclo misterioso e magico, da chi (o cosa) ispira un brano, a chi lo realizza focalizzandovi il proprio estro, fino a chi, ascoltandolo, lo immette nei propri pensieri inserendolo in un circuito vitale più ampio, e questo è vero sia per l’arte che per la scienza e sarebbe stato noto all’umanità “centinaia e migliaia di anni fa”, e solo ora siamo ridotti, per salvare sia il prodotto dell’estro sia il profitto che ne consegue, a studiare le diverse visualizzazioni possibili di una bio per scegliere quella che impedisce che un lanzichenecco ce la scippi con un “copia e incolla”, ma forse per fortuna, “tra qualche milione di anni, quando il sole in declino impedirà all’umanità di esistere, questi concetti non avranno più senso”, ma magari sarà anche diverso il modo in cui entreremo in risonanza col mondo, prima che si spenga. Per il momento lo facciamo ascoltando i brani degli Erem Davi Q, che han-no la prerogativa molto umana, e ancora poco umanoide, di registrare le loro canzoni nella loro stanza da letto (dovremmo crederci?), e questo ci consente di superare questa “Problematica 767”, pur gustandone i suoni. L’annuncio d’una hostess d’un’aeroporto, su sottofondo di un’onda di radiazioni che si solleva insieme ad un boeing diretto verso la Matrice virtuale delle realtà finanziarie, introduce ad un pezzo indie-wave, in cui la voce disincantata e distaccata canta: “Aerostatico, sono estatico…” ed il piano quasi si perde nella nevrosi innervata dalle chitarre, che reagiscono così a tempi duri in cui “si deve lottare e non cedere” e magari avanzare spavaldi con l’ausilio di un’elettronica svincolata dal consumismo delle consolle Atari e prodursi infine in una jam rock’n’roll electro-pop che spinge a desiderare un party scollacciato dentro lo Space Shut-tle. “Equilibri-Squilibri” mette in evidenza una voce che si spezza ad arte su un accompagnamento chitar-ristico acustico, l’indicatore di un’anomia a due, infatti: “Mi chiedi: diventa l’ombra mia… indossa quel velo di grigia armonia… normo-esistenza e linearità, intrecci penosi che illudono la mia realtà!” La seconda parte del brano si irrobustisce, per una immancabile ribellione con le dovute rullate, poi prende, grazie al piano, una piega da canzone jazzata, ma subito filtrata attraverso il vigore rock che si addice a chi declama: “Prefe-risco la lotta all’apatia”. E allora, largo ai “Pensieri Violenti” (brano passato su Radio Rai 1, come il precedente): “Quando l’impulso che pensi è partito…” è la premessa di una voce insinuante che quasi esibisce la propria pericolosità, mentre l’ensemble definisce un’atmosfera inquietante, con accordi pianistici gravi, consoni ad una denuncia psico-sociologica delle varie tipologie di raptus da cronaca nera, e tuttavia funzionali ad una fiction musicale electro-noir che connota il gruppo come formazione dall’appeal internazionale e dal sound futuribile, oltre che corposo. Inoltre, il video, molto ben fatto, fornisce un’interpretazione agonistica, giovan-dosi della collaborazione, come protagonista, del campione del mondo di boxe IBF Jr. Adriano Cardarello, seguiìo mentre si allena in solitudine ed esegue scatti ripetuti lungo desolate e deserte strade sub-urbane. “Strade bianche” è una dichiarazione di intenti musicali, un manifesto di 9 minuti, in cui a tratti la batteria monta fino a portare fuori giri l’audience, fino al momento in cui la scintilla corrisponde ad un impulso che “c’è!!” e allora l’irradiazione del “sogno empatico” si estende all’infinito, con tanto di apertura tastieristica, nonostante le “corde tese che ci legano, respiriamo frequenze libere”, con segnali ultravioletti di chitarra solista che si sguinzagliano a richiamare, dalle antenne degli ascoltatori in sintonia, tutta l’energia necessaria a polarizzarli su una forma avanzata di benessere spettrale: ecco la fase centrale, techno-psichedelica, in assenza di peso e di ritmo, che raccoglie gli umori cibernetici e li convoglia, lungo linee di basso e capannoni-laboratorio collegati da umidi sottopassaggi, verso un assoluto musicalmente alieno e liberatorio.
Before Crisis, prima della crisi, durante la fase compositiva, temporeggiano, ma comunque nella loro musica si percepisce nettamente che c’è qualcosa che ribolle negli strati inferiori, e quando prorompe è grunge allo stato libero, che evidentemente l’imminente botto del governo sta richiamando qui dopo averlo risucchiato dallo stato di Washington. Il giro reiterato di chitarra in “Dead girls devour me” ci introduce ad un ruvido e ruggente rigurgito (in senso buono) di tematiche pop-underground, leggende metropolitane da cui ci si fa divorare, in una trance dalle radici heavy-blues, quando si vive on the road e si è più esposti a fantasmi di ragazze morte, con rifrulli erotici inesausti, i cui stivali non le lasciano mai nude; il ritmo è costante, il groove selvaggio. “Vampyre Marijuana” gode di un altro buon riff, che poi si trasforma in frasi sfuggenti ed in solenni dichiarazioni di ostilità, naturalmente espresse da una voce, quella di Saracino, che il “rumore” lo sente, lo vede e lo annusa ovunque, e lo sparge in una struttura molto solida infestata da tosti hipster di quarta generazione, a cavallo di chopper post-atomici; nella seconda parte echi affamati di distorsione galleggiano in un inebetimento indotto che sa di sacralità blasfema, ma dopo due-tre finte l’eruzione di vampirismo si fa ossessiva ed è solo la fine a placarla, con una sfumatura fumosa. Di “Rejected rein” ci piace l’arpeggio a scampanìo della chitarra, e gli assoli storti che opacizzano il diagramma delle funzioni vitali portandolo verso la polarità “colica”, mentre “Kajavah” sembra un mantra con fondo percussivo tribale ed evocazione dello Spirito Spurgante ad agire sull’animo degli ignobili con tutta la forza di un castigo orientaleggiante derivato dai più celebrati gruppi grunge del Pakistan! Il rombo con sfrigolii massivi che apre “Meteor” ci scaraventa in uno spazio musicale magmatico in cui le scariche energetiche sono colossali, le frasi chitarristiche sono un volano spaziale ed il noise distorsivo dominato dalla voce possente è l’effetto se-condario di una progressione percussiva variegata degna dei Pink Floyd di “Set the controls for the heart of the Sun” e più recenti derivati, scia sonora di una propulsione massiva e rombante verso l’insondabile violenza degli eventi cosmici, nelle cui sublimi ridondanze sperimentali si fondono anche i rivestimenti di metallo più stratificati. “The Sun is burning your face”, affrontando solo gli aspetti più spiccioli e alla lontana delle forze che regolano l’universo, è più pop e satirica, con il clangore ritmico beffardo della chitarra ed il commentario distaccato di strofe che esprimono un giudizio con tono serafico. Il bridge è placido ma la voce parla sul serio, e gli spazi per chitarra solista e batteria precedono la morale, piantata lì con tono inespressivo. Altro discorso spetta a “Hole”, in cui al riff ritmico risponde esplicitamente un fischio simile ad un feed-back controllato, ma anche il resto del brano, a parte la necessaria strofa di tono volutamente smorto-cimiteriale, è tutt’un impasto e un botta e risposta di elementi di un sound eruttivo che secerne un’adrenalina vitalizzante nei nostri cervelli minacciati dalla cancrena per le cronache del Parlamento.
Lo abbiamo già scritto su questa rubrica il 27/10/2009: The Ciaffis, a chiamarli così, sembrano una famiglia di italo-americani paciocconi presi di mira dai figli piccoli dei più noti “Soprano” che li attaccano da dietro per tirargli i… ciuffi(s)! Ed invece si tratta di un gruppo garage rock musicalmente ispirato ai Tre Allegri Ragazzi Morti, come testimonia il pezzo “Un Tofo d’amore”; tuttavia non è pensando a questi tre, ma piuttosto alle vere tristezze che gravano sul mondo, che il quartetto aveva a suo tempo aderito ad un progetto tra musica e diritti umani appoggiato da Amnesty International. “Waiting for the mood” è un pezzo indie con le chitarre ed il basso vivaci, ma ad un livello base di sofisticazione, per fornire un fondo straight ad un’accessibilità che non dev’essere mai messa in discussione; è piuttosto la voce che, con toni ironici, mette in farsa forse pro-prio gli sforzi di certi tipi, di trovare il momento e il mood perfetto prima di fare le cose che devono. I divertenti cambi di intonazione del cantante rendono il brano una sorta di sitcom grunge scritto da uno strapazzone che si è coperto la pancia di insulti tatuati diretti alla ex, figlia di un parruccone del college. Questa verve costringe gli impiegati dell’anagrafe a ricontrollare i propri documenti per capire chi sono veramente, ma dovranno aspettare “Another dawn”, un’altra alba, brano che ci assiste con la sua struttura grunge-psichedelica intarsiata da linee di basso prepotente e tiritere di chitarra, mentre aspettiamo il sorgere di una ciambella zuccherata sulla faccia del portiere impiccione, quando domani scenderemo in strada a controllare che un buco nero non si sia ingoiato anche le bombe alla crema, oltre al pianeta più contestato dell’universo. La voce nel ritornello annuncia quest’alba con una solennità poco seria, ed infatti la vena cor-rosiva e dissacrante non prende sul serio neanche se stessa, mancando di sovrastrutture ideologiche diverse dall’uso del preservativo. Dovrebbe dominare forse la struttura tipica dei Pearl Jam da college, ma la svagatezza oscura dell’insieme ci sembra sbilanciata verso la componente punk rock, e infatti in “Un Tofo d’amore”, omaggio scanzonato al chitarrista e fumettista Davide Toffolo, leader appunto dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che pubblica fumetti, note e foto su El Tofo Blog, dopo l’arpeggio elettrico pensoso, sostenuto dal basso, si staglia un canto libero da pensieri normali, in un “buio assoluto”, e l’evoluzione della chitarra è di sicuro paranoide e compiaciuta per giunta del disagio, così come la voce del nuovo cantante Rodolfo Tramonta, dallo spirito guascone e forse scientemente sbullonato, non si preoccupa di fare l’esame del palloncino prima d’accostarsi al microfono, o quello del DNA prima di decidere se l’orsacchiotto mutante uscito da sotto la gonna di feltro di Maria Pia è opera sua o di un bergamasco fissato col Depilzero, e se l’e-sito è positivo, “gli occhi lucidi non li arresti proprio mai, neanche se lo vuoi”. Il gruppo ha la sua efficacia proprio perchè il mondo è quello che è, e loro ne hanno una adeguata consapevolezza compositiva. D’altronde il tofo sappiamo bene che è soprattutto un nodulo, aggregato di urati, che sorge in chi ha sofferto di gotta, specie se è un tartaro che ha accumulato anche tante carie da avere la visione dei mattoni del suo cervello che si sgretolano.
il7 – Marco Settembre
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