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Steve Coleman: la forza delle stelle

Federico Ugolini
Federico Ugolini

ROMA- Ci accoglie, nella sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica lo scorso 8 ottobre, col suo solito cappellino con la visiera all’indietro, il suo jeans largo e le sua maglietta colorata, quasi a tradire una sorta di distacco preventivo verso tutto ciò che è formale estetico e preconcetto.

Ed infatti Steve Coleman, con il suo sax al collo, introduce il concerto con il suo fraseggio unico e riconoscibile, con quella voce che ha studiato e ricercato fino a diventare fondatore di un metodo tutto suo (l’m-base moviment). Un metodo che non è uno stile, come lui ha sempre dichiarato, ma un modo di pensare la musica, un linguaggio di simboli sonori per esprimere la natura dell’esistenza umana, un linguaggio che pur partendo dalle influenze dei grandi maestri-sassofonisti del passato (Charlie Parker, Sonny Rollins, John Coltrane, Von Freeman e Bunky Green) è scevro da ogni banale imitazione, è una ricerca continua che si spinge nel campo dell’esoterico e del non conosciuto.
Come l’ultimo Coltrane consumato dalle sue teorie tra suono, numerologia e universo in espansione o il grande pianista-visionario Sun Ra conosciuto più per le influenze psichedeliche che la sua filosofia cosmica e le teorie sull’Universo davano alla sua musica, con la sua formazione più longeva, la Steve Coleman & Five Elements, presente nell’universo musicale fin dal 1981, il sassofonista americano propone al pubblico romano il suo Astronomical/Astrological Music Project che ricerca affinità tra il campo musicale e le stelle. Ed è fantastico come già dal primo pezzo si venga catapultati in questa atmosfera sonora attraverso le note del sax e della voce di Jen Shyu pioniera di un modo sperimentale e creativo di utilizzare la voce, che guarda alla musica tradizionale di Taiwan, sua nazione di origine, e alla tradizione aborigena.

Tutte le composizioni alternate senza pause e introdotte dai soli del leader, hanno questa forza ancestrale, questa energia arcaica, questa voglia anche di ritornare alle origini africane. I musicisti che compongono il suo quintetto, oltre al loro strumento, usano tutti la voce e il battito delle mani per creare queste atmosfere, ben presenti nell’ultima fatica discografica di Steve Coleman “Harvesting Semblances and Affinities” da cui sono tratti alcuni dei brani proposti.
Di forte intensità sono stati i dialoghi tra il sax di Coleman e la voce, e il dialogo con la tromba di Jonathan Finlayson, importanti anche le incursioni del piano di David Bryant, mentre avrei preferito sentire di più il fantastico Miles Okazaki alla chitarra, ridotto, ahimè, per la maggior parte de tempo, a creare linee di basso.

Un concerto sicuramente non di facile impatto e fruizione, sottolineato anche da un certo numero di spettatori che hanno lasciato la sala nel bel mezzo, in cui magari a lungo andare si sarebbe sentita anche l’esigenza di sentir suonare di più i quattro formidabili musicisti, anche perché nei pochi momenti in cui suonavano insieme, senza l’apporto della voce, ti sentivi catapultato con ancora più intensità nel mondo magico delle stelle e del cosmo Colemaniano.
Una scelta coraggiosa, uno sguardo privo di banalità sulla musica contemporanea, un momento di sperimentazione e vitalità questo è stato il concerto di Steve Coleman, e gliene siamo grati.

Valeria Loprieno
Foto di Federico Ugolini

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