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Che storia è questa: Erri De Luca e Gianmaria Testa

Federico Ugolini
Federico Ugolini

ROMA- Senza nemmeno essersi incrociati una sola volta, si conoscevano già. Sono stati i libri (di Erri De Luca) e le canzoni (di Gianmaria Testa) che li hanno avvicinati, che li hanno fatti incontrare. Come se fosse un destino.

Ed è così che li abbiamo ritrovati ancora una volta all’Auditorium Parco della Musica lo scorso 29 settembre, veri amici che si danno regolarmente appuntamento sui palcoscenici italiani e del mondo, come pure all’osteria, davanti a del buon vino, la chitarra e i libri sempre a portata di mano.
Il nuovo progetto di canzoni e poesie portato in scena è fatto di racconti taglienti come solo Erri sa scrivere e dire, che affrontano temi a entrambi cari: le migrazioni, l’amore, le guerre, la prigionia, il ‘900, secolo ormai antico. Nel corso dello spettacolo, che poi spettacolo non è visto che sembra più una conversazione tra amici di quelli buoni, spesso finiscono anche con lo scambiarsi i ruoli ed è così che scopriamo la voce roca di Erri che canta (una struggente e asciutta versione di “Lacrime Napulitane”, ad esempio) e la simpatia di Gianmaria che legge (un “Elogio dei piedi” pungente, profondo, divertente, poetico in puro stile De Luca).

La partenza è dal Vangelo, la storia di Cristo che guarisce, uomo tra gli uomini che raddrizza le storture della vita; è dalla parabola del cieco che riacquista la vista e che vede per la prima volta i suoi simili che De Luca inizia il suo racconto. E’ dal cieco che grazie alla “sputazza” e alla polvere che il figlio di Dio gli getta negli occhi e che vede gli uomini come “alberi che camminano” che tutto ha inizio, è dalla sensazione di radicamento nella terra che lasciano gli alberi che De Luca parte per il suo panegirico.
Gli alberi, il legno che galleggia, le barche che conducono gli uomini verso il loro destino, le stelle che sono la guida dei viandanti, l’immigrazione. Il ‘900 e gli italiani che andavano per mare in cerca di fortuna in paesi lontani, l’odio riservato ai nostri immigrati, e l’ondata delle nuove migrazioni, dove gli stranieri non siamo più noi, ma sono gli “altri”, dai colori diversi, una cultura diversa, ma con un odio, una paura (nostri per loro) che si rinnova, si contagia, e che non dovrebbe appartenerci.
L’immigrazione e la guerra, quella “vecchia”, mondiale, che ha dilaniato l’Europa e ha fatto tanti morti innocenti e quella del nuovo eccidio di massa che ha insanguinato le strade di Sarajevo, quella della poesia di Izet Sarajlic che i nostri due non mancano di ricordare nel loro intervento (il 2010 è un anniversario importante, caro sia a Gianmaria Testa sia, soprattutto, a Erri De Luca perché il 16 marzo sarebbe stato l’ottantesimo compleanno del poeta bosniaco). La fame in guerra, anche di cultura, il tentativo di sopravvivere alla morte e al freddo, bruciando l’immensa libreria del poeta, creando una sorta di “classifica del fuoco”: nel primo inverno Sarajlic bruciò i libri dei filosofi, nel secondo i romanzieri e le loro storie, nel terzo inverno di assedio della città finirono nel fuoco i drammaturghi, il quarto fu quello della fine della guerra e i poeti, loro sì che furono salvi.
E’ un espediente importante quello che usa De Luca raccontando questo aneddoto: la poesia non salva se stessa, non è immune alla morte, ma salva gli uomini dal loro abbrutimento, li rende più umani e questo da solo, è un buon motivo per salvarla, sempre.

Ce n’è per tutti i gusti ed è così che da Giuliana Masi, Stefano Rosso, Boris Vian, si passa a Gino Strada a Carlo Giuliani, ai “morti per caso” per un’idea, per la giustizia, per la democrazia.
Parlano e cantano di Fraternità, Uguaglianza e Libertà, De Luca e Testa, come se una nuova rivoluzione plenaria potesse risorgere nelle coscienze, come se davvero “chi ferma una guerra è più forte di chi la comincia”.
Raccontano la bellezza del Cavaliere Invincibile degli Assetati, quel Don Chisciotte, padre delle grandi battaglie impossibili che però diviene invincibile proprio perché non può vincere mai. E’ il sogno di vivere, il sogno di amare, di credere, che tutti ci accomuna, il bisogno innato di essere compresi e accettati. Non manca un omaggio a Fabrizio De André e alle sue figure di derelitti della strada (“Via del campo”) e a Sergio Endrigo (“Camminando e cantando”). Con una lingua colloquiale e a volte anche un po’ dura fatta di napoletanismi, con una semplicità ricercata e letterariamente raggiunta attraverso il sentimento, il fascino del significato molteplice della parola, ma senza ammiccamenti che De Luca trasporta, trascina, e quell’aria da vecchio lupo di montagna gli sta anche bene, soprattutto quando lo sguardo si scioglie in un sorriso che sembra alba di vita vissuta, anche addolorata, ma sempre “vera”. E quell’accompagnamento musicale così intenso nella voce di Testa, come un orso canterino, dal cuore profondo e scolpito nel viso che si scioglie di emozioni e sentimenti antichi eppure sempre nuovi.
Ed è l’amore che guida il finale, quell’amore di baci e di carezze, ma anche quello delle pacche sulle spalle tra amici, come dimostrano De Luca e Testa per primi, quell’immensa amicizia condivisa, quell’amore disinteressato che, nonostante tutto il tempo che passa, la società che cambia, i secoli che si rincorrono l’un l’altro in una girandola di corsi e ricorsi storici, rimane pur sempre la più grande, forse l’unica vera speranza che gli esseri umani si portano dietro.

Edyth Cristofaro
Foto di Federico Ugolini

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