Le evocazioni di Steve Hackett
[MUSICA]
ROMA- Non basta ricordare i suoi gloriosi trascorsi come lead guitarist all’interno di una delle più importanti rock bands di tutti i tempi, i Genesis, per spiegare il tributo d’affetto che il pubblico italiano si dimostra ogni volta pronto ad offrire a Steve Hackett, e come è capitato anche al Laghetto di Villa Ada a Roma il 28 Luglio 2010.
Bisogna infatti ricordare a chi non li conosce già uno per uno, anche i numerosi successi di una lunga e brillante carriera solista, che sin dal cele-brato esordio con il mistico e sorprendente “Voyage of the Acolyte”, capace di stupire e incantare dall’attacco vertiginoso di “Ace of Wands” sino all’insistito ed estraniante riff in crescendo orche-strale di “Shadow of the Hyerophant”, ha saputo rappresentare una degna, forse la più degna, prosecuzione espressiva di quella vague tra il misteriosofico, il poetico e il simbolista, quel ba-rocchismo petroso sparso su fragili e polverose reliquie di narrazioni pseudo-vittoriane, che fu la particolare interpretazione genesisiana del progressive, quanto mai classica e “impostata”. Steve Hackett, nato a Pimlico, Londra, nel 1950, ha condiviso con i Genesis il loro periodo di maggior splendore artistico (si perse solo il primo pallido esordio, e poi il medioevo impressionista e se-greto di “Trespass”), ritirandosi, per insofferenza verso il suo ruolo troppo marginale, durante il mixing del doppio live “Seconds Out”, che chiudeva non a caso, un’epoca, aprendone un’altra che avrebbe proiettato il terzetto di sopravvissuti alle defezioni di Gabriel e del chitarrista, verso lo Stardom rock planetario, al prezzo di una semplificazione “modernista” con diversi scantonamenti nell’easy listening evergreen, sia pure di gran classe.
E se il termine “progressive rock” non deve significare solo rock con abbondanza di tastiere, ecco che dal succitato “Voyage of the Acolyte” (pubblicato quando ancora era un Genesis) in poi, Steve Hackett ha saputo produrre una sequela di opere calibrate, in cui il suo chitarrismo, giammai sfrenato o schiavo della velocità d’esecu-zio-ne a tutti i costi ma piuttosto teso alla ricerca dell’intensità emotiva, esprime una ricerca che non si priva dell’adeguato sostegno orchestrale, offrendo anzi sempre uno spazio piuttosto ge-neroso ai suoi tanti collaboratori e session men, sin dai tempi in cui il solista preferiva non vestire anche i panni del vocalist lasciando la piacevole incombenza ad artisti di provato spessore artistico come Sally Oldfield, Steve Walsh (dei Kansas), Ritchie Havens, Randy Crawford (tutti nel secondo album, “Please don’t touch”, tranne la prima), fino a Jim Diamond in tempi più recenti, ma per quanto concerne gli strumentisti, oltre al fratello John Hackett, flautista di solida formazione classica (ex concertista) e autore del recente “Checking out of London”, non si pos-sono non ricordare i sodalizi con John Acock (anche in sede di produzione), Nick Magnus, Ian Mosley (batterista dei Marillion), Julian Colbeck, Ian McDonald (ex King Crimson). A parte va considerata l’esperienza nel progetto GTR, supergruppo di cui Hackett fu fondatore insieme ad un altro guitar hero del progressive, Steve Howe degli Yes, esperienza durata lo spazio di un disco ed un tour ma di grande soddisfazione nonostante qualche difficoltà, e la partnership di pre-stigio con Brian May dei Queen, per l’album “Feedback 86”, non tra i più felici, ma sempre molto interessante e carico di stimoli.
Insomma l’approccio di Hackett alla composizione è eclettico, sofisticato ed elegante, e si caratterizza per l’attitudine a sviluppare spunti dalla tensione visionaria, influenze letterarie (continuando la tradizione genesisiana dei riferimenti impliciti ad autori come Lewis Carroll, H.P. Lovecraft, J.R.R.Tolkien, Mervyn Peake), ma anche ricami di neoclas-sica compostezza (si veda la sua notevole produzione acustica, segnata da uno stile compositivo sorprendentemente vicino a quello del XVI/XVII secolo (“Bay of Kings”, “Momentum” e “Me-tamorpheus”) secondo alcuni critici specializzati di quel settore, e persino influenze da world mu-sic (dal brano “The red flower of Taichi blooms everywhere”, al CD di produzione brasiliana “Till we have faces”, fino alle ultime incursioni nell’Europa dell’Est con ritmi e sonorità da mazurka et-nica o inseguendo ombre inquietanti sul treno spettrale “Transylvanian Express”). Nonostante questa varietà di ispirazione, Hackett mantiene magicamente un’identità complessa che si definisce, sia pur sfuggevolmente, attraverso il gusto dell’innovazione ed il portato di un grande sen-ti-mento (“Guitar noir” è esemplare in tal senso), consistente soprattutto in una strisciante malinco-nia accompagnata all’inclinazione per le dimensioni spirituali dell’esistenza (Nelle note a “Darkto-wn” del 1999, Hackett scriveva: “Reincarnazione e sopravvivenza sono tra i miei temi preferiti: la coscienza esiste fuori dal corpo. Vedrete, un giorno, che è la cosiddetta realtà ad essere la gran-de beffa…”). Qualcuno scrisse nell’occasione, che Hackett è davvero un uomo haunted, ovvero infestato, tormentato; in realtà ha probabilmente un debole per i fantasmi, esplicitato sia in “Dark-town”, che in “Highly strung” (1983), e non solo. Ed anche sul suo sito, in un breve commento al-la sua puntata romana di fine luglio, si è così espresso: “Ed i fantasmi di Roma camminano ac-canto ai viventi in ogni strada o passaggio…” Allo stesso modo, i suoni di Steve e della sua band hanno sfilato nell’incanto notturno del Laghetto di Villa Ada sfiorando o investendo il pubblico con la loro sostanza da “altro mondo”, così coinvolgente eppure fuori dal tempo. Con una band che per qualità si pone tra le migliori mai messe su da Hackett nel corso della sua quarantennale car-riera, il musicista inglese, classificato tra i primi 30 chitarristi di tutti i tempi, capace di scoprire il “tapping” prima di Eddie Van Halen e a fare “sweep picking” prima di Yngwie Malmsteen, ha dato luogo ad una performance di grande impatto che ha ripercorso diverse tappe della sua esplora-zione musicale. L’apertura è stata affidata a “Every day”, primo brano di quello “Spectral mor-nings” che a suo tempo sembrò a Hackett il suo miglior lavoro (insieme a “Selling England by the pound” dei Genesis); la sua terza prova solistica infatti era segnata da una sicurezza tecnica che sembrava un’aura d’invincibilità, e di profonda ispirazione. Subito dopo, l’evocativo “Fire on the Moon”, brano iniziale del nuovo CD “Out of the tunnel’s mouth”, che in un’alternanza di quiete e solennità, riflette sul mutamento di prospettiva che porta un arco di trionfo a trasformarsi in un oscuro e minaccioso tunnel. Dopo un altro brano, “Last train to Istambul”, ancora dal suo ultimo lavoro, giungeva il primo tributo all’epoca Genesis, quel “Carpet craw-lers” che resta una delle pagine più affascinanti di quell’autentico capolavoro cult di pura avan-guardia anni ‘70 che è “The lamb lies down on Broadway”. “Ace of Wands” (Asso di Bastoni), già citato, riporta con l’evo-luzione dinamica della composizione, al primo lavoro solista di Hackett, determinante per fare ac-quisire al musicista quella fiducia in se stesso, quell’auto-determinazione che nel gruppo non riu-sciva a trovare, sottoposto a criteri di approvazione… rigidamente democratici. “The steppes” (Le steppe) è un brano dalla ritmica lenta e potente, su cui la chitarra di Hackett si avvolge in spire maestose, prima ipnotiche, poi trionfali. Sempre da “Defector”, il terzo album, è “Slogans”, brano piuttosto veloce e schizoide, di elevata difficoltà, che include un eser-cizio di “tapping” accom-pagnato da tastiera con il vocoder, basso e una rutilante batteria, tutto per suggerire la pericolo-sità degli echi della propaganda. “Serpentine Song” (da “To watch the storms”, 2003) è una so-gnante ballata con un flauto sublime, dedicata al padre di Hackett, che dagli anni ’60, presso il lago di Hyde Park, (“un luogo con intorno un lago, come qui a Villa Ada”, dice Steve dal palco), era solito vendere dipinti originali presso la rassegna d’arte all’aperto, ogni domenica, col sole o con la pioggia. “The mechanical bride”, dallo stesso CD, è un brano di clima opposto al prece-dente, perchè schizofrenico, aritmicamente jazzato, con molti stacchi ritmici in sincronia e l’im-pianto luci che manda bagliori al calor bianco: un omaggio allo stile dei King Crimson di “21st century schizoid man”, che Hackett ha sempre ammirato, ed una protesta contro il conformismo sia nella coppia che nella vita civile. “Spectral mornings”, conclusiva title-track dell’album omo-nimo, è composizione struggente di romanticismo visionario positivo, con la magnifica frase mu-sicale dominante alternata a fasi più rarefatte, e ricorda un periodo in cui sia la vita sia le forme musicali erano meno frenetiche. “Walking away from rainbows”, altro strumentale di commoven-te, malinconica bellezza, è tratto da “Guitar noir” (1993) ed ha un profondo significato lirico, rife-rendosi ai momenti in cui si decide di allontanarsi, staccarsi a fatica dalle certezze che ci hanno dato sostegno. Dal vivo questo brano si è arricchito del flauto e del sax di formidabile sensibilità di Rob Townsend, oltre che delle affidabili e complici tastiere di Roger King, altro storico com-pagno di Hackett dai tempi di “A midsummer night’s dream”. Questo introduce al set acustico, stavolta più breve del solito, con la sola “Bay of Kings”. La chitarra classica prosegue con le sue cristallizzazioni olimpiche e pensose, e giunge all’intro di “Blood on the rooftops”, altro pezzo ge-nesisiano salutato con un’ovazione ed eseguito per intero, grazie alla empatica versatilità del bat-terista-vocalist Gary O’Toole, che si fa carico della parte vocale che fu di Phil Collins e inter-preta con disinvoltura e partecipazione emotiva il coinvolgente brano tratto da “Wind and wuthe-ring”, che ci lascia estasiati. A seguire, altri due brani consecutivi da “The lamb…”: “Fly on a windshield” e “Broadway melody of 1974”, rivisitati da Hackett in una versione un po’ più free. A seguire, dall’ultimo lavoro, una versione live di “Ghost in the glass” regalava un momento ele-giaco al pubblico, guarnendola con pregevoli interventi al flauto di Townsend.
La bizzarra figura della solida bionda Nick Beggs (già con i Kajagoogoo negli anni ’80) trovava poi modo di far emergere in un pezzo personale il suo “virtual stick”, un Chapman Stick modificato fino a di-ventare un midi; mentre Amanda Lehmann appare come una gradevole presenza, con la sua seconda chitarra usualmente relegata sullo sfondo, ed in compenso una ottima backing voice. Lo show proseguiva con un’altra sfaccettatura dell’animo di Hackett: quella blues, già ampiamente illustrata con “Blues with a feeling” (1994) ma emersa nell’ ultimo CD, “Out of the tunnel’s mouth”, appunto con questa “Still waters”, che mette in evidenza, oltre alla sapienza del leader, anche il poderoso, profondo basso di Nick Beggs. Il finale di concerto parte da un accenno di “Myopia”, un pezzo di opaca paranoia, tosto e frenetico, e sfuma nella spettacolare “Los Endos”, magnilo-quente pezzo di chiusura di “A trick of the tail” dei Genesis, usato da Hackett co-me contenitore fantasmagorico per un mini medley che include anche un frammento di “Dancing with the moonlit knight”, del periodo Gabriel, per poi tornare a Los Endos, rielaborato come in “The Tokyo tapes”, cioè con un approccio un po’ più fusion, senza il mellotron in funzione coro che concludeva in glo-ria anche la versione inserita in “Seconds out”. I bis, ugualmente memorabili, erano due: la leg-gendaria “Firth of Fifth”, eseguita con finezza ricalcando stavolta l’originale dell’ immortale com-posizione firmata da Tony Banks (Genesis annata ’73), e “Clocks – The Angel of Mons”, brano introdotto dall’imitazione chitarristica, doppiata dalle percussioni, del ticchettio inquietante di un orologio, sottolineato da una frase drammatica di basso, e poi deflagrante nella solenne e sovran-naturale rivelazione di un angelo che secondo una leggenda apparve a difesa dell’esercito ingle-se che stava per soccombere ai nazisti durante la battaglia di Mons (Belgio). La potenza dello spirito che dall’al di là condiziona la realtà e muove gli eventi è suggerita dalla intensità e dalla lunghezza dell’assolo del batterista e dall’imponenza dell’impasto sonoro in cui la chitarra di Hackett si fonde lancinante e severa.
Il resto è caccia all’autografo!
il_7 – Marco Settembre
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