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PITTURA VI_ I poltergeist dell’”in–coscio” in salsamenteria

Francesca De Martinis lavora con l’ombra azzurrognola di profondità insondabili ricreate, negli sfondi, con velature spugnate su pannelli di legno, e ne cava fuori figure luminose, misteriose ma-nifestazioni di soggetti graffiati che vengono alla luce come fantasmi di pose fotografiche mosse, ottenute – sembrerebbe – andando a caccia di poltergeist.

Ne risultano personaggi eterei, estratti per sottrazione di colore grazie a colpi di carta abrasiva sferrati al supporto ligneo come se si trattasse di una scultura porosa da smerigliare per cercare di liberarla dall’oscurità. In realtà l’artista per la creazione delle sue texture sullo sfondo sfrutta la tempera murale, passata ortogonalmente in verticale ed orizzontale prima di stendervi sopra le velature nero-bluastre, mentre per le figure parte da bozzetti fotografici realizzati da lei e poi fotocopiati per permettere una graficizzazione dell’immagine che, visto il movimento repentino dei soggetti che così si distorcono e/o si sdoppiano, si presta ad essere poi resa con la tecnica sopra descritta, la quale in ultima analisi conserva nel procedimento globale tratti dell’estetica di Francis Bacon, della fotografia futurista e dei… ghostbusters!

Agnese Skujina, di origine lettone ma reduce da un periodo vissuto nel Salento, dipinge costruendo calde scene di paese o scorci rurali con un’applicazione materica di colore che porta la realtà ad addensarsi sull’immagine con spatolate o comunque con strati spessi di pigmento, come superfici di muri che resistono alle cotture del Tempo e non lasciano cadere i loro intonaci sotto al sole. I volumi degli edifici del paese vecchio a volte sono solo abbozzati e valgono come pittura pura assoggettata al figurativo, informale addomesticato. Si tratta di un figurativo popolare in cui le figure sono gestite con immediatezza: pochi tocchi di colore per definire i personaggi come in un impressionismo corposo e contemporaneo, che raffigura degli skaters in campo lungo su un piazzale (“Il suo turno”) anzichè i soliti anziani nella masserìa. “La partita” invece inquadra in primo piano una sedia di paglia con dei vasi vicino all’angolo d’una fattoria, e figure ottimamente stilizzate che giocano a palla sul vasto sterrato affocato. Le superfici, tra cui il cielo praticamente stuccato con un bianco reso paglierino per la giornata afosa ma opaca in cui gli alberi sono incisi a bella posta, sono entusiasmanti. Dal vivo la giovane artista riproduceva un volo di gabbiani, partendo dallo studio di alcune foto, e meditando sul modo di lasciare il fondo biancastro del cielo più corposo girando intorno alle sagome libere degli uccelli, sapientemente abbozzati in nero e grigio, ed il risultato è stato molto equilibrato.

Diego De Camillis visualizza con l’acrilico immagini in cui la pesantezza inquinante e squallida di ferrose metropoli di un futuro vetero-industriale lasciano un segno nefasto, scomodo a guardarsi. L’enorme sbocco di una tubatura rigetta acque reflue di liquami verde marcio sporgendosi da un muro di mattoni disegnato con sottili pennellate nere. L’approccio è misto: pittorico ma con l’intervento graficizzante di questi contorni neri, ancora più protagonisti nel pezzo astratto in cui su uno sfondo ben screziato grigio e verde chiaro spento, una concatenazione di tranci di metallo bullonati si snoda verticalmente originando in alto una deflagrazione acida e sanguigna che contrasta con i toni più freddi del resto dell’abnorme immagine. Dal vivo l’artista ha preparato una tela e l’ha resa un luogo funesto in cui fiamme rosse e marroni si incastrano in un un lungo tunnel a spirale creando un apocalittico gioco di forme che sarebbe stato impressionante se fossero sta-te frattali. Il colore non conosceva apprezzabili stacchi di tono e anzi alla fine si amalgamava in un marrone quasi indistinto intervallato da un color crema deprimente per i dietologi, e nel lontano punto di fuga della spirale irregolare una mostruosa macchina a bracci metallici sempre bullonati si allargava in tutte le direzioni producendo delle esplosioni di sangue forse derivate da sue e-morragie random o forse dal ferimento di un Predator invisibile grosso come una cisterna spazia-le.

Nicola Piscopo con perizia calligrafica e lucidità allucinatoria – a soli vent’anni: le deviazioni del giovanotto promettono bene! – dipinge scene che sarebbe criminale non definire surreali, non lesinando l’artista nell’utilizzo generoso di quelle sfumature che oltre a dare profondità ai soggetti, sono utili per richiamarsi a Salvador Dalì e alla sua visionarietà clinica conclamata e spettacolarmente delirante. Piscopo dalla sua Napoli destabilizzata ha portato all’Alpheus quadri da cui promana la sua abilità tecnica nel ritrarre, ad esempio, la mano di un dio sbruffone che da una enorme caraffa versa un infante immerso nel suo liquido amniotico trasformato in latte dentro ad un bicchiere. Non si tratta di un… “lattante”, forse? E la scena si svolge a pochi metri da un edificio di stile settecentesco, quel Real Albergo dei Poveri di Napoli, progettato da Ferdinando Fuga, che, con i suoi 103.000 metri quadri e la sua facciata di 354 metri, rappresenta uno degli edifici più colossali di tutta Europa; e sul suo tetto Piscopo ha collocato di vedetta un lattaio scrutatore in evidente imbarazzo metafisico. In un altro quadro, consacrato ai giochi di nuvole, sembra che una tromba d’aria appena dissolta, abbia fatto roteare in alto alcune pecore, forse perchè la loro lana può servire per rattoppare i buchi nelle nuvole prodotti dal sesso degli angeli (?) ed invece l’artista ci spiega che trattasi semplicemente di un “cielo a pecorelle”! In un pezzo più piccolo Piscopo si è concesso una divagazione pop erotica: un tubetto di dentifricio insemina con la sua pasta le setole di uno spazzolino-donna disponibilissimo, mentre due denti stanno a seguire compiaciuti, e mordendosi la lingua.., quella lezioncina di “sesso orale”! Dal vivo Piscopo ha dipinto “San Grìa”, una caraffa di vetro con tutti i riflessi al punto giusto, piena dell’appetitoso preparato, ma sormontata da un’aureola, come se quel contenuto fosse – arguisco io – il significato, ovvero il “succo” mistico di quei significanti che inseguono un senso unico e vincolante come se fosse il Sacro Graal! Per un surrealismo non dell’incoscio di pollo, ma dei calembours, nel segno dell’ironia semi-razionale!

Antonio Conte, napoletano anche lui, come tesi conclusiva all’Accademia di Belle Arti di Napoli  ha portato “Facce da Facebook”: una serie di ritratti di soggetti prelevati in foto inconsapevolmente dal noto social network, croce e delizia delle odierne paranoie virtuali, e rivisitate pittoricamente con veloci e decisi interventi. Le reazioni dei diretti interessati venivano investigate solo a posteriori: l’artista pubblicava a sua volta i ritratti su Facebook e li taggava. Conte ha dichiarato che per lui non c’è grande differenza rispetto ai ritratti di regnanti o condottieri; lui ritrae i per-sonaggi famosi di oggi, quelle persone normali che, in potenza, dall’oggi al domani possono di-ventare icone assolute della post-post-modernità partecipando al “Grande Fratello” o ad “Amici”. Le reazioni sono state degne di ponderose analisi sociologiche (e per questo noi, sociologi dei baraccati, ne parliamo): “Oh, ke carrrrino! :-)” oppure “Aoh, hai plagiato la mia foto!” (notare l’uso eccentrico del termine “plagiato”), oppure ancora: “Mi hai fatto con la pancia, e invece tu devi ritrarmi come mi vedo io, non come mi vedi tu!”. E, per finire: “Non mi hai fatto bello come lui (devi riequilibrare le ingiustizie della Natura!)” Conte con acrilico e pastelli ad olio lavora su carta da pacchi, spingendo questo materiale povero e le pieghe che forma, a plasmarsi come un’opera pittorica uscita da una bottega rinascimentale (una salsamenteria?) del Regno delle Due Sicilie. Dal vivo il pittore, appena tornato da un breve soggiorno ad Amsterdam, eseguiva, aggiungendovi dei mulini azzurri, una rivisitazione del noto quadro di Gaugain che ritrae Van Gogh mentre dipinge i girasoli. Le solite malelingue del secolo scorso sostengono che, come una qualunque delle facce di Facebook, Van Gogh non sia rimasto contento del ritratto fattogli da Gaugin e abbia cercato di mozzargli un orecchio per poi avvitarselo al posto di quello dato in pasto ai (noti) corvi.

Giorgia Lucci produce immagini a tecnica mista, figurative e fiabesche, ispirate al mare, in cui diversi elementi sono raffigurati usando insieme al colore una sostanza granulosa che potrebbe persino essere zucchero per rendere ancora più dolciastro uno stile che propone il cielo rosso non per suggerire visioni crepuscolari, ma per sottolineare la valenza “romantica” di un  tramonto animato di creature fumettistiche naif, come il pollacchiotto che cinguetta una striscia melodica si-mile a pellicola di celluloide, barche stilizzate in modo difforme l’una dall’altra, un papavero in un angolo, e soprattutto un albero fatto di nastrine ocra che strangolano anche uno storto spicchio di luna, mentre un surfista terribile sembra dirigersi sul pelo dell’acqua zuccherata verso un vulcano seminascosto da una sorta di pergamena mezza arrotolata. Durante la serata di ieri, 1/6/2010 Lucci si è spesa a creare un fondo nebuloso azzurro acquamarina su cui disponeva, larghe, creaturine  fantasiose frutto forse dell’indigestione di un cetaceo; una lumaca dorata lunghissima faceva cappiole col suo corpo anche fuori dalla conchiglia, ed altre entità mezzo-floreali e bottiglie col messaggio non si capivano neanche da sole ma erano comunque figlie di un onirismo sdolcinato e coloratissimo!

Elena Leggio ha prelevato dal suo atelier due realizzazioni su rettangoli irregolari di cartone, e con l’aria di chi sfida pure i costruttori di scatole da scarpe ha portato all’Alpheus queste opere (tagliate così forse per esigenze concettuali) per farci osservare come lei sia abituata a collocare enormi figure bianche all’interno di labirinti sospesi, fatti di strisce geometriche colorate e spirali nere, in cui minuscoli omini si perdono o si ritrovano, come in un mondo occasionale parallelo pronto ad essere ripiegato e messo via non appena uno si scuote dal decorativismo spinto verso la metafisica ingenua. Infatti la testa ciclopica di donna è solo un’aquilone di cui un omino tiene il filo convinto che “lei” sia solo una sua costruzione di cartone volante, sia pur gigantesca da portarsi nell’inconscio. Dal vivo affrontava con lentezza mal calcolata una tela vera e propria sulla quale fin troppo pazientemente stendeva il nero piatto su forme che sembravano progettate da un ceramista del kosovo e che contenevano però due nudi geometrizzati, e incasellati all’interno di un box buio che probabilmente, quando l’artista finirà il quadro a casa, finirà circondato da altre strisce e motivi astratti di quell’universo da cartoleria.

Il_7 – Marco Settembre

1 giugno, Agnese Skujina, Antonio Conte, Diego De Camillis, Elena Leggio, Francesco De Martiniis, Giorgia Lucci, marco Settembre, martelive 2010, martemagazine, Nicola Piscopo, pittura

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