In bicicletta con i Têtes de Bois
Ospiti della quarta serata, i Têtes de Bois hanno presentato ai MArteLivers il loro ultimo lavoro e la loro filosofia della bicicletta: un modo per riappropriarsi di tempi e spazi che possono appartenerci ancora, in qualche modo. Prima del concerto abbiamo incontrato la voce del gruppo, Andrea Satta. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Da dove nasce il vostro nome? Perché lo avete scelto?
“Têtes de bois” è una canzone francese di moltissimi anni fa, ed ha ispirato anche una trasmissione radiofonica, la prima che usciva un po’ da una radio convenzionale, quelle con le voci impostate.
Noi poi abbiamo dei papà che hanno vissuto la Francia nell’epoca dell’emigrazione e ci hanno portato un certo tipo di dischi, soprattutto quelli di Léo Ferré. Come origine e anche come linee guida siamo rimasti molto legati a quell’inizio. Têtes de bois vuol dire teste di legno: è come dire scapestrati.
Se dovessi dare una definizione del vostro gruppo, quale sarebbe?
Un collettivo artistico.
Perché?
Perché non facciamo soltanto il lavoro di suonare, ma pensiamo anche agli spazi, a come comunicare quello che facciamo, cerchiamo di trovare i soldi per fare le cose.
Quindi diciamo che ci muoviamo anche per produrre quello che facciamo e anche perché cresca un tessuto culturale intorno al nostro lavoro e intorno al lavoro degli altri.
Cerchiamo di far stare insieme gli artisti, di farli incrociare, per cui è un lavoro che non è solo quello di scrivere canzoni e salire sul palco…
…è un progetto culturale…
Sì… Un progetto culturale che al centro ha la musica, ma che si muove.
Infatti voi non siete solo un gruppo musicale, ma delle persone che fanno delle cose con un obiettivo che non è solo musicale, ma anche direi politico. Lo confermi?
Certo. D’altronde, come uomo, mi sentirei senza una parte di me se non avessi nelle cose che faccio anche una tensione politica. È una parte ineliminabile: scrivo canzoni, penso progetti o vedo negli altri un lampo, un pensiero, uno sguardo, un passaggio particolare che ricollego a un contesto. Per cui è ovvio che la destinazione di quel che faccio, fa parte di quel che faccio.
Sai tutto quel discorso un po’ “accademico” sulla purezza dell’arte, che deve essere libera da qualsiasi condizionamento…
Penso che sia giusto essere liberi da qualsiasi condizionamento. I condizionamenti sono una cosa, le idee e i sogni e le lotte che si fanno per realizzare i pensieri che hai, sono altro.
Non credi che siano in conflitto?
No, perché noi non dipendiamo da nessuno, non abbiamo mai fatto una cosa che non ci andava di fare o per convenienza. Anzi, spesso abbiamo fatto il contrario. Sulla libertà dell’arte sono d’accordissimo, e forse è quello che succede poco oggi, ma è successo poco anche in passato. Il tentativo – non dico che sia un risultato – è quello di non avere padroni.
Il fatto di avere un obiettivo che vada al di là dello scrivere in sé, è un limite o una risorsa?
Credo che non sia né un limite né una risorsa. Ognuno è fatto com’è. Noi non possiamo fare finta di non avvertire le tensioni che ci sono nella società, non possiamo non condividere la battaglia del popolo delle carriole a L’Aquila, per dirne una che magari salta subito agli occhi di tutti.
Non possiamo non partecipare a una serata contro la pena di morte o contro la tortura; e lo facciamo prima da uomini e poi da artisti. Poi hai la possibilità di scrivere e di cantare, e magari di contribuire ad aggregare un pubblico su un’idea, su un punto di vista, su una riva di civiltà e usare te stesso per ottenere questo risultato.
Quindi in questo ambito va collocato anche il vostro discorso sulla bicicletta. Non sul ciclismo, ma sulla bicicletta…
Esatto, sono due cose diverse…
La bicicletta è un simbolo resistente, in tutti i sensi…
…bravissima!
…quindi la scelta non è casuale. Da dove nasce quest’idea, a livello personale?
Non è casuale, infatti.
Prima di tutto viene dalla semplicità della bicicletta: due cerchi, un triangolo e due pedali che si inseguono.
È molto elementare, somiglia sempre a se stessa, affonda le radici nell’infanzia di qualunque bambino. Sta molto in fondo, è qualcosa di molto sedimentato nella tua vita.
Poi scopri che ha una serie di vantaggi e di modernità che noi tutti inseguiamo: anche quelli che la pensano in altri modi sono comunque attratti dalle modalità dell’ecologia, dell’economia, della parcheggiabilità, del non inquinamento, della salute…
Per un verso o per l’altro almeno qualcuno di questi punti interessano a chiunque. Chi non vorrebbe stare meglio di salute? Chi non vorrebbe parcheggiare esattamente dove gli serve, proprio davanti all’ufficio?
Queste cose la bicicletta le permette. Inoltre non fa rumore e puoi anche pagarla poco. Se decidi che non devi prendere quella di stramarca puoi andare in una ciclofficina e avere la possibilità di recuperare una bicicletta che va benissimo per quel che ti serve. La bicicletta poi è un oggetto trasparente. Ti lascia vedere oltre se stessa…
Forse anche perché è un mezzo più lento, che ti permette di prestare attenzione a ciò che ti sfuggirebbe, per esempio, in macchina…
Esatto. Intanto è “fuori”, perché tu in bicicletta stai fuori, non stai dentro i vetri e quindi sei sulle cose, senti gli odori…Hai una velocità che non è così lenta come i piedi, per cui le cose non arrivano mai, e non è così veloce come la macchina, che non fai in tempo a fissarle nella retina.
Quando guardi in fondo, quei sassi sulla collina dopo un po’ diventano case, diventano un paese; quella montagna che era azzurra pian piano diventa verde; se sei in un bosco ed è passato un animale, ti giri e forse ancora lo cogli. E poi ti lascia la possibilità di innamorarti dei dettagli: le linee bianche ai lati delle strade non sono proprio dritte, e in bicicletta riesci a vedere la sbavatura della vernice, il colato del pennello; c’è la buca che non avresti visto, c’è un lombrico che attraversa la strada.
Ci sono tutta una serie di cose che vivono parallelamente a te, e che diversamente scavalchi. Un po’ come i paesi dell’Abruzzo con l’autostrada: per arrivare da Roma a Pescara in un’ora e mezza (che è sicuramente un vantaggio), c’è un’Italia meravigliosa che si perde. Le famose due velocità.
Quindi la bicicletta rientra in questo progetto di contestazione.
È una scelta, un progetto culturale, a fronte di un sistema supercapitalistico e superconsumistico che sta dimostrando tutti i suoi limiti e tutto il suo crack interno, sta implodendo soprattutto in Occidente.
I Paesi che oggi dominano l’economia sono quelli nei quali le libertà sindacali non sono rispettate, dove gli orari di lavoro non sono certificabili, come ad esempio quelli asiatici. Per questo esiste il profitto che passa attraverso la delocalizzazione: mantenere la tutela dei lavoratori e un regime capitalistico è difficile.
Le economie occidentali sono in crisi perché surclassate dai Paesi in cui è possibile produrre di più spendendo meno, in quanto mancano tutte le conquiste sindacali che sono presenti invece in Occidente.
Cosa pensi dei critical mass?
Penso che sia una provocazione molto interessante, che è una fotografia reale e dinamica di quello che un uomo vive tutti i giorni in mezzo alle macchine; solo che questa civiltà legittima le macchine e non le biciclette, o meglio non legittima niente di alternativo alle macchine, per cui se uno fa critical mass sembra un disturbatore mentre se sta ore e ore sul Raccordo, va benissimo. Come si fa a pensare che per dieci giorni all’anno i critical mass bloccano la città, quando le automobili la bloccano per 355 giorni?
Parlando del vostro ultimo album, Goodbike, che ha come tema di fondo appunto la bicicletta, lo definiresti un concept album?
Volendo, sì.
Rimanendo in ambito musicale, torniamo a Léo Ferré. Credi che per voi sia più un maestro o un ispiratore?
Sicuramente un ispiratore…
E quando scrivi di solito come funziona? Hai dei modelli di riferimento musicale?
Non direi…
Come nasce una vostra canzone?
Una nostra canzone nasce prima col testo. Io porto questo testo, qualche volta con un riff ritmico e/o con una mezza idea melodica, più spesso senza niente, e poi gli altri sono bravi a scriverci una melodia e una canzone. Dopo, questo pezzo con una struttura semplice, solo voce e melodia, si porta in sala dove tutti gli altri che non hanno partecipato alla prima parte dell’idea mettono la loro. E’ una scrittura apertissima, e poi a un certo punto diventa evidente quando un pezzo cammina o si ferma, e a volte non arriva mai.
Un’ultima domanda: tu ti definiresti un intellettuale? Anche se intellettuale sa un po’ di snob…
Non direi. Vivo una realtà di periferia, lavoro con gente che vive fuori dal Raccordo Anulare, faccio una vita normale, conosco poca gente dei salotti giusti. Sono semplicemente un musicista, uno che scrive canzoni.
Se intellettuale vuol dire far parte di una ristretta cerchia di persone che contano, io conto poco…
Grazie Andrea!
Grazie a te.
Chiara Macchiarulo
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