La saracinesca, la nebbia, la tentazione, il truciolato
[IL_7 SU…]
Gli Eyestree conoscono diramazioni dell’anima che dalle orecchie, tese a cogliere i passaggi della loro musica, conducono all’occhio, il cui nervo sovreccitato viene percorso da visioni splendide e tremule in cui la mente palombara si inabissa con un sorriso sghembo.
Dagli anni in cui proponevano cover di Oasis, Red Hot Chili Peppers e Smashing Pumpkins, la loro personalità s’è andata evolvendo seguendo il tracciato di uno sviluppo che tocca tutte le terminazioni nervose sofferenti di un gaudente reincarnato in un androide, diramazioni arboree di una rete sensoriale che nel video di “More than I cry” si fanno strisce di colori primari o filamenti neri che si insinuano aerei pronti a infiltrarsi nella City e a distorcere le prospettive grafiche minimali affogate nel bianco in cui i quattro sono collocati, a far parte d’un’atmosfera invasiva ma limpida nel suo sfolgorìo creativo. La vibrante malinconia si appoggia su un lavorìo incessante dedito alla costruzione di attimi pregni: “Quell’attimo di te, quell’attimo di noi s’è perso in mezzo ai poi”. Ma se “Quell’attimo di me se cerchi ancora c’è”, è possibile sempre ricostruire l’insieme a partire da quel frammento, che custodisce un DNA intossicato dall’utopia. L’arpeggio elettrico è cheto, rimbalza intorno ad un incanto dolente, poi l’imminente chiusura definitiva della storia cala giù la sua coltre chitarristica ruvida, come se fosse una saracinesca arrugginita. L’assolo indugia melodico sul senso dei mille momenti cuciti insieme, fino allo strappo che li schioda via da un tessuto sonoro articolato e intenso. “Let go” non è emozionalmente meno tesa, ma il furore è assente, sembra di assistere al lento disincarnarsi di un’illusione, che si sfalda tra le mani come un cartoccio di cartine geografiche consultato nell’emergenza sotto alla pioggia battente; la chitarra solista è preminente, e sembra indicare l’ineluttabilità della situazione, mentre la voce segue una bella linea melodica, ma tirandola un po’ troppo sopra le righe, tanto che sembra esserci una scollatura tonale tra sezione strumentale e linea vocale. “Siamo noi” raccoglie i discorsi attorno a quel che resta se si escludono per un minuto tutta la zavorra dei sentimenti che trovano attrito. Ma già elencandoli si recuperano e tornano a far parte di noi come un ineliminabile corredo di disposizioni, inclinazioni ed intenzioni che ci rendono così. La chitarra solista qui dipana le sue armonie anche parallelamente alle parti vocali, configurando una proposta tutta avvinta al “rumore” rock della vita: “come chiuder la ferita anche quando è in fondo al cuore, come fare a rassegnarci che sia solo una canzone”. Infatti c’è di più!
NerOnirica è un’entità plurima: è una dama sensuale dal ciglio pesante, che ha tanta facilità a farsi cucire addosso vestiti che sono le sue canzoni, quanta ne ha a sfilarseli di dosso per illumi-nare oscure stanze col candore abbagliante della sua pelle impudica. Il primo EP si intitola, a pro-posito: “Cosa rimane della tua pudicizia?”, quella che tanto sbandieravi, ambigua signora, quando chiedevi di essere vestita di musica per non esporre i traumi delle tue nudità rivelatrici? Eh già, perchè NerOnirica è sia la nobildonna, sia l’insieme dei sei musicisti con cui si intrattiene in este-nuanti sessioni amorose sia in sala prove sia sul palco, quando perde ogni ritegno e racconta le sue storie facendo riflettere senza false vergogne. L’intrico dei pizzi crudeli di questa magnetica strega è nell’intreccio emozionale che trascolora dai bagordi bohemienne di festini decadenti al chiarore rivelatore di albe lungamente attese: in “Nebbia (al di là del fiume)” le anse di vapore lat-tiginoso spinte da un sinth con effetto tromba che richiama un vaporetto fantasma, velano un paesaggio fluviale arpeggiato con dedizione da cui si sprigionano suoni spettrali elettronici su cui una voce sicura del suo abbandono dispiega i suoi compianti (“La mia coscienza ascolta la tua sete, so già che morirà se non ti vede, si accarezza per farsi coraggio; che pena mi dà!..“) fino al lampeggiare infiammato di contrasti cronicizzati fino all’autocompiacimento del protagonista della narrazione. “Pungere” inizia con parole pesanti indirizzate alla Lei più torva e sinuosa: “L’anima vera, l’anima finta, sono caduto per la tua spinta!”, ma presto si solleva in uno scontro aperto in cui l’incarognimento si squaglia in pozze di ceralacca calda poste a sigillo di acide missive: il ritmo e le pause sono definite con fluido senso di necessità, i testi sono molto curati, il tono sferzante. “Crescente” si giova di frasi meccaniche d’un chitarrismo irrigidito nella tensione di controllare gli spasmi: “L’ira funesta resta crescente”, ma poi conosce fasi di ricarica fisiologica ed un finale in cui la chitarra solista diventa ronzio da calabrone telecomandato dalla infingarda, ed il synth crea supporti incerti su cui appoggiare l’ansia sfibrante che d’un tratto finisce di vibrare. Ci piacerebbe riferire ad essa il titolo “La tua fine”, ma nel frattempo ci lasciamo piacevolmente sorprendere, su questo brano sullo sconforto della avvenente Sibilla, da una ritmica molto interessante su cui le screziature sognanti compongono incastri improbabili di ricordi e progetti, riff ficcanti come al solito e strutture mai banali in cui il rock si fa “Ironica” innervatura armonica celebrata a cavallo d’una cortigiana indomabile, nera e onirica da far male anche a se stessa. Purifichiamola!
“Io sono il più grande leader degli ultimi 150 anni”, afferma senza tema di smentita, se non della propria, il Silvio nazionale. Ed una voce di donna commenta, sgomenta: “Dio mio, quest’uomo è un pazzo”. Così inizia il promo di Mr. Lussuria, un ormai arcinoto singolo di MaxSin, al secolo Massimiliano Russo, che calpestando con irriverenza le orme di David Bowie e di Marilyn Manson con l’intento di crearsi il suo percorso da star glam, s’è creato un sentiero lastricato di pajettes e petali di rose rosse attraverso foreste di cortecce gotiche illuminate da baluginii elettronici e smanettature alternative che portano occasionalmente i polpastrelli, oltre che sulle sei corde, anche sulle cosce di avvinazzate dark queen più che consenzienti. Il concept CD “Vino, rose e tentazione”, infatti, è un crogiuolo di sfacciataggini languide urlate e dimostrate con una presenza scenica spavalda e ammaliante e con scenografie che sia nei video, sia dal vivo, creano cornici neobarocche giuste per consumati attori della propria strascinata trasgressione flamboyant. Il trailer dell’album è un groviglio di vibrazioni titillanti, parti vocali accorate, riflessi sinthetici tanto patinati quanto disperati di bambole rosso rubino pronte ad elettrificarsi con una passata di rimmel, squarci di intimità intensa e veritiera e sbrocchi trionfanti verso gioie pure e selvagge. “Lei-2009” presenta un cantato grave prolungato con falsetti artificiali sdraiati sopra arrangiamenti bru-licanti di suoni tecnici da alchimista del 3000, e l’eco “lei” che si pone come ossessione pol-puta, abnorme e arrapante oltre il dovuto, col rischio di incontrare i desideri di qualche Mr. Lussuria in delirio d’onnipotenza. L’orecchiabilità proverbiale si sposa alla sofisticazione sonora (e con rito profano) anche in “La bambola”, cover del successo planetario di Patty Pravo, ed allestita da MaxSin con una verve techno-stravolta ed un appetito da pifferaio (Piper) magico capace di solleticare gli umori più vitali e caldi di un pubblico non inibito da paranoie o dalla minaccia di Lolite di governo con lecca-lecca al veleno. Il proscenio teatrale di tali ribalte musicali, in queste condizioni, non è che il corrispettivo, bello carico, di una sarabanda sonora ricca di sperimentazione: basti pensare all’analogic sinth suonato dal front-man, agli interventi della violinista Her, e alle performance della danzatrice del ventre Zaira Giannotti, oltre agli altri strumentisti coinvolti, il cui talento piroetta le sue effervescenze intorno ad un progetto voluttuoso e sfrontato che si incarna nel poetico maledettismo contemporaneo di MaxSin e nel sogno spinto del suo “peccato”.
Madenita non si presenta eminentemente come un’entità capitanata da un musicista “adirato” contro la lentezza del blog di myspace (occhio anche alla connessione e al processore), però for-se un pizzico di stress ogni tanto magari corrobora l’intero gruppo, se è vero (come è vero) che “Dolce fiore” è stata esaminata nota per nota, rivista e riproposta con rinnovata convinzione: è il progresso che non si ferma, signori miei; il riff ritmico non ha cedimenti e produce dipendenza anche negli astemi, la grinta rustica è degna del rock-blues più temprato, la voce sembra saper prendere la vita per il verso giusto e lo stop&go distorto delle chitarre allude a ricordi di scarriolate di truciolato all’ombra del Gazometro all’ora di pranzo e pezzi di pizza freddi come suole addentate in canotto in un parcheggio sulla Tuscolana alle 4:00 coi pipistrelli che svolazzano. “Non farti fregare… Qui nessun inganno, è tutto vero!” E’ fondamentale che almeno lo stereo sulla Ford Taunus funzioni, altrimenti la pupattola ci chiederà: “Cosa è più facile, eh? Star qui senza niente da dire o dirti no senza un perchè?” L’atmosfera è schietta, ma non grezza, anche se le emozioni di base a volte ci riducono come dei babbioni con uno straccio in mano, e allora è la forza del caldo rock classico a riscattare i nostri errori: “…perchè ogni sbaglio è parte di me… sì, tutto ha senso questo sono io, ed io non cambierò; qui rido e piango dei miei limiti, viaggiano con me”. Questa la confessione del “Terrestre in orbita”: è davvero sentita, gira intorno alla terra e con la testa rivolta alle proprie buone stelle senza finire coi piedi per aria; si può cercare il limite, ma negare le proprie debolezze è una fatica supplementare di cui chi canta e suona col cuore in mano non ha voglia di appesantirsi, per potersi sollevare almeno ogni tanto dalla collosità del quotidiano (“segni nel fango scritti su di me”) e decollare verso bolle di puro spirito, spinte da una ritmica affidabile, da corposi giri di basso (“In viaggio”) e da assoli avvolgenti che smuovono il coraggio con un’energia vintage da Rock Cafè, le cui armonie liberatorie fanno dire: “Sto bene così…”. Speriamo che la fiducia faccia il miracolo!
Il_7 – Marco Settembre
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