Festival della Letteratura di Viaggio – II puntata
[LETTERATURA]
ROMA- La seconda giornata del Festival della Letteratura di Viaggio si è aperta all’insegna delle “Mappe letterarie”. L’ultimo incontro-dibattito, per i fedelissimi, ”Non luoghi e geografia delle emozioni” ha dato indubbiamente spunti e riflessioni di spessore.
Invitato (assente) è stato Marc Augé, etnologo e antropologo di fama, del quale è stato largamente dibattuto il concetto di “non-luogo”, coniato per definire certi ambienti fisici tipici delle società occidentali moderne. Spiega il geologo Massimo Quaini che la stazione, l’aeroporto e in generale gli spazi di transito sono quelli che rientrano nella definizione, tutti ugualmente privi di specificità, anonimi luoghi di passaggio che non vengono né vissuti né antropizzati. Le immagini che scorrono dietro un accogliente palco-salotto sono perfettamente riconoscibili: tutti luoghi familiari, tutti appartenenti ad un immaginario che li astrae. Sappiamo che si tratta forse della stazione di una qualche metropoli moderna quella che vediamo nelle immagini, ma quale? Essendo tutte le stazioni tipo, non ne è di fatto nessuna. La definizione, però, viene smentita dallo stesso Quaini e dalla seconda ospite Giuliana Bruno, docente di Visual and Environmental Studies dell’Harvard University. Un cervello in fuga. È lei a smentire l’esistenza del non-luogo attraverso la geografia delle emozioni. Con la nostra società sono nati, infatti, gli antidoti stessi alla spersonalizzazione degli spazi urbani, i quali vengono popolati di esperienze emozionali forti. Non possiamo affermare di non essere emotivamente legati a qualche luogo di transito. E gli addii negli aeroporti che fine farebbero? Ogni luogo vive nei ricordi di chi li ha vissuti attraverso le proprie esperienze e da queste ne viene personalizzato. Si conclude in maniera esemplare: il vero non-luogo è l’indifferenza.
La terza giornata ha ospitato l’antropologia, che in questo festival ha accompagnato, spiegandolo, l’intero senso del viaggio. Il primo incontro è stato “L’osservazione dell’Altro:ancora tristi tropici?”. Il riferimento è al libro di Lévis-Strauss Tristi Tropici che racconta la sua esperienza tra gli indios dell’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni ’30. Alla domanda rispondono Marco Aime e Duccio Canestrini, antropologi. Il secondo cita il suo libro: Turpi Tropici, che è tutto dire. Il viaggiatore occidentale pare affetto da una grave malattia, quella di vedere il paradiso dove non c’è. Quelli che chiamiamo “paradisi”, paesi della cuccagna di spiagge e natura, sono di solito paesi poveri, affamati e il più delle volte soffocati da qualche dittatura militare. Il tutto aggravato dal turismo di massa che riversa soldi in quello stesso malato sistema. Al turista modello non interessa l’incontro col diverso, piuttosto la conferma delle proprie credenze. E il senso del viaggio? Per fortuna, l’Homo Turisticus può sperare in alcuni esemplari ancora interessati a mettersi in gioco e cedere un po’ di sé nell’incontro, vero, con altre realtà e popolazioni. Stanno proliferando i viaggi responsabili, che permettono un incontro più genuino e meno distruttivo col “buon selvaggio”. Canestrini chiude con una riflessione sul tempo: per conoscere l’Altro il fattore tempo è determinante, necessario. I viaggi moderni hanno perso questa qualità, non c’è tempo da perdere nemmeno in vacanza. Al contrario, si ha bisogno di perdere più tempo per imparare ad ascoltare e guardare, per non rinchiudere l’esperienza del viaggio nell’istante di un click.
L’ultimo giro di incontri “Tra reportage e letteratura” ha voluto fare un bilancio sul reportage foto- giornalistico, a pieno titolo all’interno del filone della narrativa di viaggio. Quasi mai il giornalista resta indifferente alla realtà che descrive e il dovere di cronaca sconfina spesso in qualcosa che si avvicina al genere letterario.
Si è parlato nel pomeriggio di report di viaggi e di guerra.
Il cronista, nelle parole di Salvatore Giannella (giornalista) non racconta oggettivamente, ma si ferma sempre su ciò che lo emoziona, a volte esulando dalla notizia vera e propria. Questo mestiere, però, sta attraversando una crisi preoccupante a causa della facilità con cui la Rete rende disponibili immagini e racconti da paesi lontani, di qualsiasi tipo. Questo è il punto: la qualità. Visto che tutti oggi possono raccontare, il fattore determinante per un reporter è la qualità del proprio lavoro. Da qui nasce uno sprone a fare sempre meglio il proprio mestiere, a realizzare davvero un viaggio “come una volta”, magari sporchi di fango per le strade più sperdute della cittadina meno conosciuta, piuttosto che seduti comodamente al proprio Pc.
Veniamo al reportage di guerra. Ospite attesissimo è il giornalista inglese, scrittore, inviato di guerra Jason Elliot. Racconta della parzialità dei racconti di guerra. La realtà di un paese è più complessa delle immagini, tutte uguali, di bombe, madri disperate e bambini feriti. Un metro più in là da questa scena e la vita continua con un mercato affollato di vita. Esorta tutti a praticare un sano e rigoroso scetticismo nei riguardi dei servizi giornalistici che passano in televisione. Per motivi legati al mezzo devono rispettare certe regole, ma non quella della verità.
A contrasto con la visione omologata di ogni guerra la fotoreporter free-lance Monika Bulaj presenta i suoi ultimi scatti da Kabul. Precisa che non è un reportage di guerra. Non riuscendo a immaginare come fosse la città, aveva deciso di partire per conoscerla. La guerra in queste immagini non entra e quello che vediamo non sembra un paese in guerra. Anziani sufi, bambini che sfamano uccelli, donne senza burka, comunità che resistono alle distruzioni con l’unica cosa che hanno: la vita.
Post scriptum: perché nessuna testata ha voluto pubblicare queste immagini?
Francesca Paolini
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