Mitografie: la definizione dei miti moderni
[ARTI VISIVE]
ROMA- Esiste un momento in cui qualcosa del repertorio di leggende e racconti popolari entra a far parte del mondo della cultura, ed esiste invece un processo opposto, in cui la produzione artistica e culturale crea figure destinate a fissarsi indelebilmente nell’immaginario collettivo. La nascita di un mito risente di questo doppio processo e interscambio tra cultura e immaginazione popolare, tra natura e riflessione.
Il mito nasce come tentativo di spiegare alcuni lati della vita e dell’esistenza, ma diviene molto di più: è qualcosa che tutti conoscono, che tutti sentono, in cui tutti si immedesimano, e questa dimensione simbolica e universale è ciò che lo rende mito.
L’ appuntamento tra mito e riflessione artistica si rinnova dal 17 maggio al 14 giugno nella mostra Mitografie, realizzata nello spazio dell’aranciera di Villa Borghese, al museo Carlo Bilotti, come nuova tappa della rassegna Dentro Roma. L’iniziativa comprende una serie di esposizioni che vedono affiancati un curatore professionale ed un artista, in questo caso Peter Weiermair e Andrea Fogli. La scelta del binomio Roma-mito sembra quasi obbligata, dato che i 16 artisti presenti in mostra (ma l’elenco potrebbe essere molto più ampio), accomunati dal passaggio nella capitale, sembrano non riuscire a sottrarsi all’impatto storico e mitologico della città eterna, una fascinazione irriducibile e prepotente, che li costringe a fare i conti con il lato onirico e metafisico della loro opera. La proposta si rivela interessante, oltre che per la qualità dei nomi proposti (De Dominicis, Ontani, alcuni esponenti della transavanguardia come Cucchi e Chia, per non dimenticare i due maestri ispiratori, De Chirico e Gastone Novelli), anche per il percorso che emerge sul mito, una riflessione intrinseca su ciò che è già mito, su cosa lo è stato, e cosa lo diventerà.
La tematica è presente su un doppio livello: il mito individuale e quello universale.
Al piano superiore, una raccolta di lavori che svela le mitologie e le mitografie personali e inconsce degli artisti, che culmina in una vera e propria Wunderkammer, una stanza delle meraviglie. Si tratta di oggetti non creati ma posseduti dagli artisti, ispiratori di sogni e i pensieri, presenze concrete che rivestono un significato particolare agli occhi dei loro proprietari, una sorta di santuario di storie personali e segrete, che aiuta a scoprire l’intimità degli uomini che li hanno scelti. Questa piccola esposizione nell’esposizione è sicuramente il punto forte della mostra, in grado di scatenare una grande curiosità nel visitatore, sia per l’unicità e l’originalità del percorso, sia per il tentativo di avvicinarsi a questi grandi nomi dell’arte non solo attraverso le opere, ma anche svelandone la sfera immaginifica.
Al piano inferiore compaiono invece le opere vere e proprie, caratterizzate dalla presenza multiforme dei miti, da quelli classici, a quelli orientali, alle parabole cristiane, ai miti primitivi. L’esibizione, che comprende anche una selezione di video, getta l’osservatore in un mondo di citazioni, rimandi, storie, credenze, mescolanze di personaggi conosciuti e non, simboli. Il lato più interessante che emerge dall’intera mostra è però il delinearsi di una mitografia trasversale e alternativa, che nasce spontaneamente dal confronto tra leggende personali e collettive, e che crea un elenco di nuove figure mitologiche e artistiche. Per spiegare meglio, è sufficiente guardare ad alcune delle opere esposte. Innanzi tutto Marilù Eustachio, ad esempio, propone al piano superiore tre maschere ispirate alle opere del Tiepolo e un dittico intitolato Giuditta e Oloferne, che risente nella composizione sia delle formule rinascimentali sia del David con la testa di Golia di Caravaggio, e che nei colori ricorda la violenza dei fauves. Al gruppo francese e al neoprimitivismo sembrano rifarsi anche le tonalità accese e primordiali di Chia e Cucchi, come invece, del resto, al tenebrismo di stampo caravaggesco rimanda il trittico fotografico proposto da Pedriali, con Annunciazione, Cacciata e Inferno. Myriam Laplante sceglie, come riferimento iconografico, un modello ancora più antico, la danza macabra di origine medievale, che sembra intrecciare morte e vita, fantasmi ed umani in un ballo mistico e ancestrale, ed evidente è anche la citazione di Vettor Pisani dell’isola dei morti di Bocklin. In questo senso, l’opera più rappresentativa è quella di Ontani: i suoi miti sono tanto “letterari” quanto celebri modelli artistici, basti pensare all’ Ecce Homo, in cui non si capisce più se il mito è il Cristo con la corona di spine o il prototipo rinascimentale, o al DavidRatto, che cita sia l’episodio del ratto delle Sabine sia il capolavoro di David. Il meccanismo svelato da Ontani è semplice: ormai anche l’arte usata come riferimento è divenuta mito, in un doppio processo di qualificazione di ciò che è unanimemente conosciuto e significativo. Il punto culminante del procedimento si ha nella Wunderkammer, dove Ceccobelli espone, come oggetto d’affezione, una tavolozza dei colori utilizzata da Giacomo Balla. L’artista è divenuto mito.
Sotto questa luce, allora, le due figure di maestri dell’onirico e del metafisico proposte dalla collettiva acquistano ancora più spessore: De Chirico e Novelli, due artisti completamente diversi, che si sono accostati alla mitologia in modi profondamente differenti. La loro presenza nella mostra non è dovuta tanto al bisogno di scoprire come essi si siano rapportati alla tematica mitologica: essi sono due modelli ideali, due ispiratori. I due geni sono ormai divenuti qualcosa d’altro rispetto a sé stessi, sono entrati nella sfera della leggenda, e i 16 artisti chiamati in causa nella mostra vedono probabilmente in loro una sorta di “nuovo mito”. Così, quando Di Stasio propone nella sua opera Con il centauro una figura perfettamente plasmata sul Centauro di De Chirico, lo spettatore nemmeno si stupisce: figura leggendaria e artista del ritorno all’ordine, semplicemente due miti citati sullo stesso foglio.
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