Anthony McCall
[ARTI VISIVE]
MILANO- La contaminazione tra linguaggi artistici diversi è una prerogativa dell’arte moderna sin da inizio secolo. Ma se gli esempi di influenza e sintesi tra pittura e cinema sono numerosi (la stessa videoarte ne è un esempio) e i contatti tra pittura e scultura permeano l’intera storia dell’arte, più difficile è concepire una modalità espressiva che sia la via di mezzo o, meglio, il punto di contatto, tra cinema e scultura.
Come possono dialogare tra loro una forma artistica tridimensionale, in rapporto con lo spazio circostante, statica per antonomasia (nonostante le sperimentazioni di genere dell’arte contemporanea), e un linguaggio che è movimento e dinamismo in due dimensioni? La soluzione giunge da oltremanica, con un artista che è considerato uno dei più importanti esponenti del cinema d’avanguardia londinese: Anthony McCall.
I suoi Solid Light Films, sperimentati a partire dagli anni ’70 e riproposti dal 20 Marzo a Milano, nello spazio espositivo di Hangar Bicocca, sono dei veri e propri “film bloccati allo stadio tridimensionale”: il fascio luminoso necessario a proiettare la pellicola viene infatti privato dello schermo e diviene il protagonista assoluto dell’opera d’arte, anzi, diviene l’opera d’arte stessa, assumendo le tre dimensioni spaziali quali ambiente da indagare. È come se l’artista, scomponendo il metodo della proiezione cinematografica, decidesse di estrapolare e mettere in evidenza quello che ne è il meccanismo, è come se improvvisamente il valore non fosse più nell’opera finita (il film, in questo caso inesistente), ma nell’espediente tecnico atto alla sua creazione (il fascio luminoso), proponendo così una riflessione che è metacinematografica e metartistica nello stesso tempo. Il risultato di questa operazione è un cono luminoso proiettato dall’alto verso terra, che crea sul suolo un disegno chiaro e preciso come una traccia di matita. Le pareti luminose assumono così un duplice valore nello stesso momento: da un lato paiono elementi spaziali, tridimensionali, cui lo spettatore può girare attorno o passare attraverso, come in una sorta di grande scultura fantasmagorica, dall’altro si definiscono come installazioni soggette al tempo, perché la forma del fascio e del disegno che ne consegue si modificano con il passare dei minuti. Ecco dunque che due concetti apparentemente opposti, spazio e tempo, si incontrano a metà, e il binomio scultura-cinema non sembra più tanto inverosimile.
Se appare facile capire concettualmente la proposta di McCall, più difficile è comprendere, se non fruendo direttamente dell’opera, le molteplici riflessioni cui l’artista apre la strada. Le sue “sculture luminose e temporanee” sono veri e propri elementi da sperimentare, da percepire, da usare, con cui divertirsi. In questo modo esse rinnovano il rapporto tra cinema e spettatore, nel senso di una partecipazione attiva del fruitore e di un coinvolgimento diretto nel godimento dell’opera. Ma allo stesso tempo le installazioni giocano sulla presenza di una realtà (quella tridimensionale) che è percepibile dall’occhio, ma non dal corpo, riproponendo in una nuova veste la meditazione su ciò che è reale e ciò che è illusorio, su come avviene la percezione sensoriale, sull’esistenza di possibili livelli percettivi “altri”, magari legati ad una diversa e nuova dimensione del pensiero. Camminando per la sala buia ed enorme dell’hangar Bicocca l’impressione è quella di trovarsi in un mondo impalpabile e indefinibile, in cui il “fantasma” potrebbe essere tanto la parete luminosa, quanto il nostro corpo, in grado di attraversarla e lo stimolo ad una condizione creativa smaterializzata e atemporale diventa tangibile.
L’opera dell’artista inglese si pone come punto di partenza di molteplici riflessioni, fornendo ulteriori prove dei campi sterminati in cui l’arte può fornire direzioni allo sviluppo del pensiero.