Il curioso caso di Benjamin Button, regia di David Fincher
CINEMA- “Ho fatto sì che l’orologio andasse indietro. Forse così i nostri figli caduti in guerra potranno rialzarsi e camminare, a coltivare, a lavorare, a fare bambini, a vivere a lungo pienamente. Forse anche mio figlio potrebbe tornare. Se ho offeso qualcuno chiedo scusa, spero vi piaccia il mio orologio”, Mr. Gateau (il signor Torta) era completamente cieco e nel 1918 creò per la stazione ferroviaria di New Orleans un fantastico orologio.
Sarebbe troppo scontato costruire un orologio per essere puntuali nella vita: meglio uno che vada indietro e che ci dia la possibilità di sognare o sperare che certe cosa possano andare diversamente da come sono accadute.
Questa è l’opportunità di Benjamin (Brad Pitt), figlio di Thomas Button (Jason Flemyng) un importante produttore di bottoni, che viene abbandonato in fasce sulle scale di una casa di riposo.
E’ l’ultimo giorno della Prima Guerra Mondiale, tutti sono in festa e la gentile signora Queenie (Taraj P. Henson), governante della pensione, si prende la responsabilità di occuparsi del piccolo Benjamin, segnato da circostanze di “vita” davvero bizzarre: il fagotto sembra ostentare tutti i sintomi di una vecchiaia avanzata.
Il Baby-Nonno, contro ogni aspettativa, inizierà a vivere la sua straordinaria esistenza al contrario, tra avventure in mare, guerre, magiche nottate in un hotel chiamato “Palazzo d’inverno” e il punto fermo dell’amore riscontrato nel personaggio di Daisy Fuller (Cate Blanchett).
Cosa ci dice il nome Fincher? Prima di tutto, titoli come La storia infinita o Il ritorno dello Jedi, per l’assistenza agli effetti visivi nell’Industrial Light e Magic di George Lucas, ma soprattutto per le pellicole dirette come Seven, Panic Room, Zodiac e l’indimenticabile Fight Club.
David Fincher ci fa ricordare specialmente il nome di Brad Pitt: con Il curioso caso di Benjamin Button Pitt e Fincher giungono alla loro terza collaborazione dopo Seven e Fight Club, pronti a dire al mondo intero che hanno la stoffa per vincere agli Academy Awards.
Basato su un breve racconto del 1922 di Francis Scott Fitzgerald, The Curious Case of Benjamin Button, ha sempre incuriosito molti registi e le idee su come portarlo sul grande schermo sono state sempre innumerevoli.
Tra le mani del crudo e visionario Fincher, il racconto prende corpo e ciò che ci ritroviamo è un classico film Hollywoodiano, perfetto nella sua consistenza.
Non c’è una sola cosa fuori posto: la fotografia (Claudio Mirando), la musica (Alexander Desplat), l’incredibile trucco visivo e specialmente l’interpretazione dell’intero cast rendono il film un vero capolavoro del calibro di kolossal passati e non per nulla è stato paragonato al commovente Forrest Gump, con la presenza dello stesso sceneggiatore che vinse nel ’95 l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, Eric Roth.
Eppure cosa c’è che non va in questa mistica pellicola dai poetici e fantastici risvolti? Forse è così perfetto da risultare stranamente freddo e statico.
Il film racconta di una vita intera, di persone che si incontrano e si separano, di come la vita e le situazioni non vadano forzate, perché se è destino le strade torneranno ad incrociarsi, magari nell’età e nel momento giusto.
Eppure l’intera pellicola sembra una cantilena senza fine, vuoi anche per la sua durata legittimamente spropositata e per l’impossibilità di raccontare pienamente tutti gli eventi, ed è appunto per questo che perde di pathos e non raggiunge mai il culmine che ci serve per farci battere il cuore.
Perché con freddo distacco ci viene raccontata una storia che ci fa sorridere, magari commuovere, ma che non ci dona quella giusta intimità che serve per scivolare nelle anime dei protagonisti.
La strana condizione di Benjamin viene vista come una cosa strabiliante ma allo stesso tempo del tutto oltrepassabile, ben lontana dalla classica definizione del “fenomeno da baraccone” e questi vive la sua vita senza limiti e senza barriere, amando e scoprendo le gioie della vita, insieme alla prevedibile sofferenza del perdita di chi si ama.
Tutte le carte in regola le aveva: la storia era decisamente incantevole, le immagini color seppia riempivano i nostri occhi e la danza, strabiliante e notturna di una Daisy vestita di rosso, ci ha fatto ricordare come piccole mosse possano portarci via verso un altro mondo.
Il finale lascia una certa sospensione, ma degne di nota sono le battute che riescono a movimentare il racconto filmico, insieme al particolare racconto dell’uomo colpito dai sette fulmini ed infine la scena più bella va conferita al racconto dell’orologio, che porta indietro le vittime di guerra al loro attimo prima di partire.
Cate Blanchett e Brad Pitt danno prova di essere, cinematograficamente, una coppia perfetta dopo la pellicola Babel, eternamente perfetti nelle loro emozioni, nelle espressioni e negli sguardi, perfino sotto un pesante trucco fatto di vecchiaia e di giovinezza.
Uno speciale bentornato a Julia Ormond, sprofondata nell’oscurità dopo la pellicola Sabrina del ’95 con film del tutto dimenticabili e un solito annuire all’interpretazione dell’ormai consacrata Tilda Swinton, che qui interpreta Elizabeth Abbott, nuotatrice e passeggera amante del Benjamin di mezz’età.
Insomma, guardiamoci allo specchio e accettiamo gli anni che passano: speriamo di poter essere sempre “orgogliosi di ciò che verrà ora”.
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