Ballando sotto le bombe
[STREAP- TEASE: FUMETTI MESSI A NUDO]
In questa rubrica si gioca spesso con la parola “striscia” per inventare riferimenti al campo dell’arte fumettistica, salvo poi ricordarci in giorni come questi che il termine ha significati ben più concreti: una striscia che è, letteralmente, lembo di terra che divide popoli e governi, uniti solo dall’odio. E ancora una volta eccoci sorpresi dalla precisione con cui realtà ed entertainment fanno coincidere gli appuntamenti in agenda. A poche settimane dal rinfocolarsi di un nuova cruenta ondata di scontri a Gaza, arriva sugli schermi italiani una pellicola d’animazione legata inestricabilmente alla questione israelo-palestinese.
In realtà Valzer con Bashir, il piccolo gioiello realizzato da Ari Folman, ex militante israeliano, era atteso da tutti quelli che ne avevano letto e sentito parlare un gran bene durante l’ultimo Festival di Cannes, dove aveva suscitato apprezzamenti unanimi per il modo in cui l’animazione era riuscita a veicolare contenuti tanto drammatici.
Pur se in apparenza sembrerebbe realizzato con la tecnica della rotoscope animation, in sostanza disegnando direttamente sopra l’immagine fotografica come in A Scanner Darkly, per citare un predecessore del genere, Folman precisa che tutto è stato disegnato da zero dopo aver girato con attori veri in un teatro di posa, allo scopo di ottenere un video utile come base per lo storyboard.
4 anni di lavoro per 90 minuti che ipnotizzano lo spettatore alla visione, ce ne sono molte nel film, che gli seccano la gola e lo stringono allo stomaco.
Valzer con Bashir è cinema d’animazione che per una volta si prende una pausa dal prestare servizio nel castello Disney, quando i fuochi d’artificio sopra le guglie si rivelano bombe al fosforo che illuminano gli obiettivi sopra la città, e dal viale della Fantasia ci si ritrova nel cimitero della Storia.
Una storia ancora troppo recente perché trovi spazio nei testi scolastici, e amaramente ai più giovani arriveranno solo echi dei massacri perpetrati tra il 16 e il 18 settembre 1982, nei campi di rifugiati palestinesi di Sabra e Shatila, ai margini di Beirut.
Fu in quell’arco di tempo che milizie cristiano-falangiste penetrarono nell’area, che avrebbe dovuto essere presidiata da avamposti israeliani, e l’abbandonarono solo quando non rimaneva più nessuno da trucidare, per vendicare l’uccisione di Bashir Gemayel, futuro presidente libanese e fondatore delle stesse Falangi: 700 morti secondo i servizi segreti israeliani, oltre 3500 per le fonti filopalestinesi. Sul numero dei corpi, prima e dopo le commissioni chiamate a denunciare colpevoli, si ballò un valzer di cifre che tragicamente richiama quello del titolo. La scarsa conoscenza di nomi ed eventi che affondano le radici nella guerra civile libanese e negli altri delicati equilibri etnico-politici dell’area mediorientale, non fa che aumentare il valore documentaristico dell’opera, al di là dei suoi meriti artistici.
Una storia, la propria, è anche quello che va cercando Ari, che ai tempi della carneficina aveva diciannove anni e forse in quei campi profughi c’è stato davvero, da soldato israeliano…
Per far luce sulle deficienze della propria memoria occorre chiedere a chi ha condiviso lo stesso passato, confrontare i propri spettri con le immagini sognate da altri, angeli azzurri sotto forma di donna e cani rabbiosi che ricordano le belve alle calcagna di Dante nella selva oscura, ma che nascondono allegorie meno filosofiche.
Dopo aver riempito i propri buchi con i pezzi altrui, arriva la consapevolezza di ciò che è stato: che i blackout mentali, tutt’altro che un nemico da sconfiggere, sono uno strumento per preservarlo dalla follia di qualcosa di troppo grande e nero per un singolo uomo. Naturalmente quando giunge il momento dell’agnizione, e ogni cosa potrebbe essere pigramente classificata con una breve sigla, DPTS, disturbo post-traumatico da stress, lo spettatore è già lì ad aspettare il protagonista, vorrebbe guardarlo, confortarlo dicendo che il sangue, l’innocenza perduta e ancora il silenzio e l’inazione dei politici sono ormai fantasmi del passato. Ma come si può? Non ci sono parole.
E infatti molto viene affidato alle immagini disegnate, senza però cedere alla tentazione di mascherare nei tratti essenziali delle figure i particolari più atroci, o di richiamare con la legnosità e la lentezza di alcune animazioni la scattosità dei videogiochi, dove di solito troppo viene mostrato, perchè tanto è tutto finto.
Come Persepolis, anche Valzer con Bashir sembra opporsi alla forza centripeta che spinge la maggior parte dei prodotti d’animazione verso il massimo grado di verosimiglianza con la realtà, nella forma più che nella sostanza, per ribadire piuttosto la vicinanza alla staticità del fumetto, dove i volti, anche quelli scavati dall’orrore della guerra, restano congelati sulla pagina.
Come noi, che restiamo bloccati sulle poltrone del cinema, davanti ai minuti finali della pellicola composti da foto d’archivio sulla strage di Sabra e Shatila, riflettendo magari sull’uomo, che è l’unico animale che crea da sè le armi con cui poi si uccide.
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