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Personalita’ rock, presenze abnormi e grancasse: razione doppia

il7
[IL 7 SU…]

il7I Lads who lunch (www.myspace.com/ladswholunch) macinano emozioni come in un truogolo pieno di zamponi di rinoceronte triste, ma lo fanno lasciando a bollire anche i nostri pensieri, che colgono il riferimento ineludibile ai RadioHead, ma proseguono oltre, soffermandosi sulla polvere (“Dust”) che il quartetto romano d’adozione spazzola via dai nostri cuori incancreniti dai stessi compianti che popolano il loro spartito raffinato e screziato sia da distorsioni non banali che da saliscendi emotivi di respiro internazionale.

Ed infatti il batterista è transalpino, noblesse oblige! “Pusdiac”, vede l’alternanza tra un piano sensibile, elegiaco, e chitarre serpeggianti tra malin-conie durevoli; il brano ha diversi momenti che si susseguono in una struttura dolente utile a tro-vare spazi per un vocalizzo il cui lamento scivola verso un finale sfuggente. “I wait and you sleep” scava nelle ombre quiete e vi trova a tratti segnali ripetuti di allucinanza creativa per un risveglio adrenalinico in cui una coppia supera con una corsa folle, a piedi, nella notte, le proprie smanie giovanili da precariato senza rimedio. In “Hope” sia la frase che il suono che fanno da con-trappunto sotto alla voce amplificata sono ribollenti di umori, le idee germogliano da una tundra arruffata e una chi-tarra solista le attorciglia attorno al proprio manico. “Wake up” è una ballata desertificante, finché non iniziano ad arrangiarcisi dentro piccole note introspettive, perse in un disperato viluppo di sensazioni di cui l’ascoltatore è portato ad appropriarsi con urgenza, come se potessero essere le ultime occasioni prima di un’Apocalisse svalvolante in cui si respireranno solo gli umori sbagliati e letali invece di (“Instead of”) l’aria secca di mattini senza ma. Ed invece è a questi che si torna, in chiusura del brano, quasi a volerci convincere che, dopo immensi giri (dis)armonici, l’energia conservata da chi resta Uomo o Donna fino in fondo, vale a riscattare per-fino l’esistenza più sbocconcellata. Sì, magari!

Decisamente meglio di una pigra inattività imposta in parte dal Sistema c’è l’attivismo della voce, scandita da spontanee magie sciamaniche, di Eva Milan, con andamenti da profetessa stoica che si rifugia in un “Tempo che ha il Tempo” e si abbandona ad una trance immusonita. Lei è pronta a reagire, ma la marea è alta, e va rovesciata sul “Deserto”, con vocalizzi che sono invocazioni misterio-sofiche utili a varcare le Doors dell’imperfezione sensoriale cullandoci invece nella consa-pevolezza, quella sì profonda, dell’essenza trasognata della realtà e dei pollacchioni. La nostra è anche e forse soprattutto poetessa, come può testimoniare anche Maurizio Costanzo (mica la Lecciso!) e allora eccola salvare, “Sull’orlo dell’abisso”, quei detriti di vecchia civiltà pronti a rotolare giù nel Canyon della Malora, quelle “Cose fuori dal mondo” in cui l’animella perduta si ostina disperatamente ad attaccarsi, investendole di un’emotività sdrucita come un pastrano lavorato a patchwork da un batterista Navajo. Le composizioni di Eva Milan suggeriscono atmo-sfere accecanti e disidratate, da Estate dell’Amore nella Death Valley, come in Zabriskie Point, che a lei piace tanto da averci impostato sopra il nome e lo spirito del suo blog www. zabrinskypoint.org, dedicato all’informazione indipendente e fastidiosa per i profittatori a caccia di profitti. Vibrazioni petrose prodotte da basso e chitarre in oscura simbiosi “aprono squarci nell’apparente immobilità”, e lei aspetta “che si apra il cielo sul mio pensiero”, mentre intrecci di corde definiscono una tensione creativa che getta l’occhio nell’inquietudine. Molto efficace l’ar-peggio umbratile di “Cose fuori dal Tempo”, in cui il ripensamento si sofferma ossessivo sull’ ipnosi di un maniscalco insonnolito nella sua bottega in cui i gesti si ripetono come note sen-tenziose anche durante le sospensioni di una “Crisi temporale” in cui, il tempo reale, dilatato, va a farsi benedire chissà da chi.

I Samsara (altro nome del Nirvana, ovvero del ciclo vitale in cui ci si arrabbatta replicando con azioni discutibili a apparenze materiali insustanziali) destabilizzano i violentatori di puzzole con il coraggio di chi azzarda spupazzamenti musicali con un’attitudine per il digrignamento dei denti in un astuccio; esplorano sonorità volutamente strabiche guardandole in faccia con sguardo provocatorio e salsicce macinate alla mano. “Mr.Day” racconta secondo me l’evoluzione di un santone ambulante delle merendine che si abbuffò per tutta l’Asia negli anni ’70 spaventando con degli Hey! da autostoppista killer tutti quelli che temevano la cirrosi causata dalle farine di semi di carrube e di fegato di pollo deidrogenato. Questo personaggio rovinava tutti i concerti dei Japan ripetendo con un megafono: “Sono più tozzo di Buddha, io, e detesto la modestia!” “C’N’D” propone un estatico spargimento di strofe di raccoglimento pop su questioni esistenziali che richiedono uno sdoppiamento di personalità, ma poi un frastagliamento percussivo introduce e compenetra una rincorsa metal superata da un assolo orientaleggiante, mentre il ritorno delle strofe è dominato da una voce neo-punk che insiste su tonalità da hard core prog, ammesso che il prog non perda la brocca, qua dentro. Appresa la lezione delle mazurke di Raoul Casadei, la frenesia sballata in “Rock Suicide” vive di alternanze tra strofe con chitarre vispe e voce para-noidea e sbrocchi acidognoli in cui si potrebbe intingere il pan pepato. “Revolver” è prigioniero di frasi musicali simili a tiritere da far accapponare il lettore CD: l’intenzione beffarda risulta, per contrasto, dall’intermezzo pacifico che poi cresce guidato da un falsetto da zappatore scalzo, a cui si raccorda un assolo di chitarra su tonalità da clarinetto storto; segue un breve passaggio che porta al galoppo maligno di un un dragone disinformato, purulento e disossato. Probabilmente il reporter che ha scagliato le scarpe contro Bush ha ascoltato questo brano prima di uscire di casa insoddisfatto e animato dalle migliori intenzioni, quelle di regalare un paio di guanti al presidente uscente. “Texas” mostra la faccia repubblicana della rabbia: i muscoli stagionati del governatore del Texas mentre costringe sua moglie a tre zampe a pulire i resti dell’apple pie sformata sul pavimento davanti alla pendola western con appese le giarrettiere delle sue amichette, mentre con la quarta zampa la lady fa l’hula hop sperando di ravvivare i fuochi della passione di un tempo, quando il marito la paragonava sessualmente ad una capretta scema. Lo scatafascio in cui i Samsara mandano le cervici più impettite è il frutto di un’arguzia musicale priva di freno a mano.

I Loxx (www.myspace.com/loxxband) si affermano al primo ascolto con una irruenza sagomata e strutturata che non fa concessioni ai raccoglitori di cicoria, potendo contare su un lead singer dotato di una personalità vocale portata a compimento forse durante assalti di milizie irregolari ai contrabbandieri di torroni d’asfalto. Musicalmente sono irsuti e svettanti, in “Longest game” si parte di gran carriera, e l’insorgenza cadenzata delle chitarre puntella e dissolve, puntella e dissolve, “nothing lasts forever, man”, ed un’altra voce in controcanto risponde, di modo che chi cerca le screziature pop trovi la sua soddisfazione, ma la cifra espressiva del quartetto è nel vigore con effetti cangianti da neo-psichedelia: in “She knows” sia l’assolo di chitarra che i riff sono davvero elettrici, mica battuti al telegrafo ottico. I rintocchi di chitarra su “In your hands” vengono costretti a subire lo sciabordìo di un furore virile e di distorsioni piazzate lì di santa ragione; ma puntuale, secco e deciso appare tutto il dispositivo, compreso il basso che esegue lavori con grande applicazione e pulizia. “Forgive me” appare disteso in una malinconia spessa, che si compone di tocchi calcolati, finchè almeno non deflagra la solidità di una ritenzione tanto strenua-mente mantenuta; l’assolo incide entusiasmi perfino nei confronti della sofferenza, ed il ripiegamento contro le proprie insubordinazioni non si sazia di giustizia: interessante l’artificio della frase musicale ripetuta dalla voce e dalla chitarra solista insieme, inneggiando ad un perdono meritato, più che implorato. E’ forse questo il segnale di una revisione del rock finora ventilato dai legislatori, ma non ancora formalizzato, dal momento che in certi ambienti settecen-teschi viene ancora assegnata la priorità alle compilation di San Remo o ai bootlegs della Wine-house. I Loxx respingono questi virus con la stessa marcata passione con cui costruiscono i loro possenti tributi al sound degli anni ’70, Led Zeppelin in particolare, anche se l’alternative rock è decisamente presente sulle loro tracce. L’alternanza tra momenti di attesa di rivelazioni solenni e l’eruzione di una musicalità corposa decide le sorti di una complessità emozionale che non lesina severi trionfalismi.

Nati nel 2004, i componenti del quintetto La chiave hanno da subito iniziato a cercare il grimal-dello per entrare nei favori di un pubblico ostile e sprezzante, e ci sono riusciti con una grinta fuori dal comune, che gli ha permesso di combinare spunti e idee in modo massiccio, senza com-promessi con usurai turchi. Da subito hanno sfornato roba che si appiglia allo stomaco con uncini e senso della composizione, e le maglie ad uncinetto, invece, le hanno lasciate nel baule della nonna. Le loro tracce sono comunque composite ma grazie ad una sezione ritmica robusta, non stanno lì a cincischiare con capriccetti da Toscanini e vanno direttamente allo scopo, che sareb-be poi stato, ma tanto per iniziare, vincere l’Art Music Festival di Genzano. “Il mio signore” ha un’andamento macinato con una ottima chitarra che sguazza nel ribellismo tra riff e assoli graf-fianti. A parte l’atmosferica e utopistica “Pangea”, “un mondo senza confine, sotto un’unica ban-diera fatta di mille colori in festa, una moltitudine di razze in danza”, si ravvisa l’influenza pre-ponderante di Piero Pelù e dei Litfiba, ma non è un crimine, a quanto ci risulta, e anzi diremmo che può contribuire allo sviluppo di un front-man spigoloso e zuzzurellone nell’intimo, con gli au-toincitamenti da guascone. “Scoppio” si connota per la velocità del cantato, (ma anche del resto, visti i piccoli crescendo chitarristici) tanto da porsi come giusto innesco per tutte quelle anime dalla forte fibra che devono trattenersi a lungo prima di fare un casino, dopo essere rimasti chiusi a chiave nel camerino in compagnia solo di mezza birretta dopo “tanta voglia di vivere” di sera. “Trapano” inizia con un lavoretto per due chitarre: una va in contrappunto, l’altra si abbandona a visioni fatte di note prolungate e misteri su cui fissarsi avvolgendosi per perdere il controllo alle-gramente: “è qui che io rinascerò”, da effetti mirabolanti e godibili capaci di affliggere solo chi ha una coscienza ingessata che non dialoga con gli incubi buffoncelli di un individuo che deve rifondarsi anche se non trova più il trapano: “era qui, era qui…”, ma dove è finito?

Quando l’atmosfera non si spiega in due parole s’affacciano i North by Northwest per farcela percepire fin nei suoi odori: in “Me, myself and I” si succedono intro, strofe, fuga metal, inter-mezzo liquido, e di nuovo un metal misurato con la ripresa del cantato che riporta in superficie gli accordi dolenti echeggiati da una voce in controtempo, il tutto “in slumbers”. Invece “Wrong” si accomoda su un poco confortevole e sinistro contrappunto, mentre un’altra chitarra produce mo-stri nel sonno della ragione, preparando l’avvento di una fuga dalle tinte emotive in contrad-dizione creativa, e in cui l’assolo si dimostra spiccatamente rock, ma non è per questo che ad alcuni tutto sembra sbagliato, wrong, nelle istituzioni marocchine. “Slint” è un interessante eser-cizio di stile, strumentale con confuso chiacchiericcio di fondo e una sorta di ritornello che sa di monotonia losca, in questo contesto di anticaglie cupe che si manifestano all’improvviso con sca-glie di pellagra a forma di rombo sulla schiena; ma il brano continua con una seconda parte sognante con tanto di coro femminile leggero ed evocativo: presenze abnormi dunque possono essere messe a mollo dentro vasconi pieni d’acqua saponata, dunque, e l’assolo ci mostra questo scenario pieno di calori e colori fumiganti che si stira all’infinito sotto gli occhi di un Troll che vuol fare il lumacone con la sacerdotessa. Lo pòzzino..! The long goodbye” è più marcata-mente rock, anche se giammai banale, e rallenta solo alla metà, accompagnato da un tappeto di tastiera che simula archi, mentre nel finale sono angeli in coro che ripetono la frase musicale precedentemente cantata dal guerriero sassone (o dal macellaio bavarese). Www.myspace. com/northbynorthwestitaly, mi compiaccio.

I Las Vegas Wake Up (www.myspace.com/lasvegaswakeup) sono sempre stati pronti per suo-nare nel loro Liceo di provenienza, solo che non lo sapevano finchè non ci hanno provato, e questo è molto ma molto male: un punk, anche se mostra di essere addolcito dal pop ado-lescenziale, è ultrasicuro di far vedere sorci verdi a tutti e poi mangiarseli durante l’assolo del chitarrista; un vero punk giovanissimo, oggi, sale sul palco e tira la grancassa verso la fidanzata, che però la respinge con le gambe a X perché porta le ginocchiere da pallavolo chiodate su cui la grancassa si buca come il palloncino d’un pupetto! A parte l’arroganza bufalina del rocker dan-nato, soffocata sotto robuste dosi di educazione classica, nei Las Vegas Wake Up scorgiamo un vitalismo irrefrenabile dal sound essenziale e volenteroso che non mancherà di produrre pagine efficaci e comunicative in cui al ritmo incalzante e all’incisività dell’interpretazione vocale già si uniscono cambi di tempo e assoli come in “Ego”, la pietra miliare della loro produzione originale. Ci aspettiamo che anche loro cinque, con la verve elettrochimica che hanno, sappiano trattare l’ego come un nemico, quando rischia di fare danni, e possano piuttosto continuare, per esempio, a sperimentare incastri vocali tra i due singers, senza che ognuno provi la tentazione di lasciare il gruppo tra un mare di polemiche e recriminazioni per tentare il successo in Ucraina con un grup-po hip-hop costringendo i genitori a comprargli una adeguata collezione di cappellini da baseball esclusivi. Il dolceamaro delle composizioni neo-punk ha un pubblico ricettivo ed entusiasta, chissà che non finiate dopodomani in qualche sigla di telefilm USA, stile Buffy, ma restando sempre voi stessi senza fare i… buffi come il sottoscritto. Bravi e avanti!

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