Lezione ventuno, regia di Alessandro Baricco
CINEMA- “Nel novembre del 1831, fu ritrovato, sulle rive di un lago a cento chilometri da Vienna, il corpo assiderato di un Maestro di musica che si chiamava Anton Peters. L’uomo era sdraiato sulla neve, accanto a una valigia, e stringeva tra le dita un violino. Lo faceva con tale forza che fu impossibile, poi, seppellirlo senza il suo strumento”, inizia sul ghiaccio il film del famoso scrittore torinese Alessandro Baricco, nella fredda malinconia di una morte e con la spiazzante sinfonia di sottofondo di un’aria del Farnace di Antonio Vivaldi.
Con dolce semplicità Baricco riesce a farci penetrare nel suo mondo ovattato, pieno di quei personaggi così particolari che sono soliti riempire le sue storie.
Famoso per racconti come Novecento, Seta e City, Baricco quest’anno abbandona il primario ruolo da scrittore per cimentarsi come regista, nella sua prima ed unica opera cinematografica dal titolo Lezione Ventuno.
Girato interamente con un cast internazionale e in lingua inglese, la pellicola è stata presentata in anteprima mondiale al Festival di Locarno e narra la storia di un gruppo di studenti intenti a ricostruire, tramite registrazioni ed appunti, una delle più famose lezioni tenute dall’eccentrico professore Mondrian Kilroy (John Hurt) : ovvero la lezione ventuno.
In perfetto stile non-accademico, la lezione ventuno consisteva nell’analisi di una delle 141 opere più sopravvalutate nella storia dell’arte umana: la Nona Sinfonia di Beethoven.
Tramite citazioni, testimonianze, e la metafora di un mondo lontano, il professore sgretolerà quello che è da sempre considerato il più grande successo del compositore tedesco, cercando di far capire come gli esseri umani riescano facilmente a distorcere la vera realtà dei fatti.
Una delle sue studentesse più care, Marta (Leonor Watling), andrà alla ricerca del suo ex professore per domandargli, ancora una volta, il significato più recondito della lezione ventuno e dell’improbabile fallimento di Beethoven nella sua nona sinfonia.
L’opera di Baricco ha profonde e diverse tematiche, che compongono uno dei film più innovativi ed audaci della produzione cinematografica Italiana degli ultimi anni.
Presentandosi come una metafora vivente, Lezione Ventuno, ci trasporta dalla realtà fino alla fantasia, tra personaggi rocamboleschi degni di un vero racconto d’avventura, fino ad una leggenda che porta ancora, come un marchio indelebile, dubbi e punti interrogativi. Perché le domande sono il perno della pellicola di Baricco, che lascia a noi spettatori le possibili risposte se non le tante interpretazioni che vanno donate proprio sul contemplato finale.
Tutto si basa su una “sfida”, un duello che Beethoven doveva affrontare con il resto del mondo e forse, principalmente, anche con sé stesso, con la sua vecchiaia inoltrata che sovrastava il suo estro artistico.
Ed è anche questo che il regista tenta di spiegare, ovvero la “vecchiaia”: come la fine di Beethoven si colleghi con la fine del professore Kilroy (personaggio estrapolato dall’opera dello stesso Baricco City), raccontando di come la saggezza e l’esperienza non possano produrre bellezza, senza tentare di avvicinarsi nemmeno a quest’ultima.
Eppure, per quanto si parli della vecchiaia che non riesce a suo modo a sfoggiare una bellezza universale e concreta, sembra quasi che nel parlare all’infinito della Nona Sinfonia la si riesca ad elogiare disprezzandola.
Contro ogni logica si evidenzia ancora di più il genio che era Beethoven, nelle sue vittorie e nei suoi fallimenti, di come riuscì a creare ancora della musica fino ai suoi ultimi istanti di vita.
La pellicola, in questo modo, diviene strategicamente un documentario sulla reale storia di quella notte, di come il pubblico reagì al ritorno del compositore tedesco e se realmente quei fazzoletti bianchi, davanti i suoi occhi, sventolavano in un unico coro di trepidazione.
Dal canto delle immagini poetiche, delle tematiche ben costruite e dell’ironia che fa capolino tra le battute dei protagonisti, Baricco non riesce a rinchiudere lo scrittore che è in lui, portando sullo schermo ciò che solitamente va unicamente bene per un racconto: le metafore vanno a stratificarsi fino all’eccesso e i finali si moltiplicano senza lasciare il giusto respiro allo spettatore.
Ci culliamo in questo modo in un mondo fatto di neve, nel quale un topolino diventa un orologio da taschino, un bacio rende silenziosi gli uccelli e cinquantaquattro passi diventano la distanza ideale tra Peters (un intenso Noah Taylor) e la fanciulla portatrice di morte e di bellezza, perché è questo che fondamentalmente gli angeli dovrebbero concederci prima di congedarci dalla vita.
Ma alla fine di tutto, dei commenti, delle verità, delle sopravvalutazioni e di ciò che separa il bello dal brutto, siamo noi i veri giudici della nona sinfonia di Beethoven: decideremo noi chi vinse e chi perse quella sera a teatro.
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