Chinese Coffee, regia di Al Pacino
CINEMA- Un nome ed una garanzia: per molti Al Pacino incarna lo stereotipo dell’attore perfetto: attraverso i suoi innumerevoli ruoli, tra particolari sfaccettature e audaci sfide, si è sempre classificato nelle alte vette delle preferenze del pubblico.
Forse è questa la sua particolarità: riuscire a mettere d’accordo sia critica che pubblico, senza il minimo sforzo. Non per nulla, lo stesso attore, resta il nostro Lucifero preferito, che tra una risata provocatoria e un discorso ammaliante, ci rammenta che “la vanità è il suo peccato preferito“.
Comunque si rappresenti o venga rappresentato Al Pacino sa bene quello che vuole e lo ha perfino dimostrato con le sue prove da regista.
Ospite nella terza edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Al Pacino si è confrontato con il pubblico e, dopo aver ritirato il premio Marc’Aurelio D’Oro alla carriera- Acting Award assegnato all’Actors Studio, ha presentato all’intera sala la sua pellicola inedita del 2000, dal tito “Chinese Coffee”.
Già reduce da un’esperienza passata con “Riccardo III, un uomo un re“, l’attore si cimenta nel solito doppio ruolo di protagonista- regista.
La peculiarità che spunta fuori dalle sue opere da regista è costituita dalla perfetta capacità di esaminare le storie con uno stile prettamente da documentario.
Ad una prima occhiata si potrebbe perfino parlare di una serie di interviste associate ed amalgamate, con una punta di messa in scena teatrale.
Ma non è una novità, perché l’attore ha sempre dichiarato di avere un particolare amore per il Teatro, affermando di riuscire ad esprimere ancora di più di quanto riesca a fare dietro ad una macchina da presa.
Chinese Coffee narra la storia di uno scrittore squattrinato, Harry Levine (Al Pacino) e del suo ultimo romanzo.
In una serata Newyorkese Harry si confronterà con il suo migliore amico, un fotografo fallito di nome Jack Manheim (Jerry Orbach) e, rivangando questioni passate, ricordi e screzi, i due amici si ritroveranno a discutere ferocemente su tutti i loro fallimenti, sul successo, l’amore e il valore artistico.
Il film indipendente finanziato dallo stesso Al Pacino è basato sull’omonima piece teatrale di Ira Lewis, produzione Off-Broadway già portata in scena da Pacino nei primi anni ’90.
Seppur l’opera registica non superi il livello che, Pacino, solitamente ci offre da attore, Chinese Coffee è una lunga metafora sull’insoddisfazione umana.
La gelosia di un migliore amico, nella disperazione, può venire fuori e distruggere involontariamente la persona che ci sta più a cuore.
Pacino ci mostra come, attraverso un’opera, si possano usare questioni personali, sottointese e non, per far uscire fuori tutti quei piccoli segreti che si erano nascosti fino ad allora.
Come se in tutti noi, in un certo senso, albergasse un lato oscuro che caccia, volontariamente, la nostra parte più umana.
Di certo questo film non è un’opera per tutti. Lugubre a tratti e dalla trama psicologica, non viene accettato di buon grado dallo spettatore comune e forse è anche per questo che Al Pacino, prima del Festival di Roma, non volle pubblicare il film, ritenendo che senza una distribuzione adeguata la pellicola non sarebbe stata apprezzata come realmente meritava.
Noi, dal canto nostro, possiamo solo dire che Al Pacino è arte vivente e in qualsiasi modo rappresenti il suo talento, quest’ultimo esce fuori dallo schermo, pronto per rapirci come suo solito.
Se qualcuno, per “errore”, si fosse addormentato durante la filosofica pellicola, diciamo semplicemente: peggio per voi!
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