Paul Newman: un saluto all’eterno giocatore
CINEMA- Era una giornata come tante nella Capitale: le prime temperature basse, i primi maglioni indossati e il principio di una malinconica pioggia che ci priva della voglia di uscire dalla porta di casa.
Tenevo il mio grande lettore CD “vecchio stampo-argentato” sopra il letto e scorrendo, tra la musica più idonea e desiderata, mi soffermai sulla vecchia colonna sonora di Road To Perdition (Titolo Italiano “Era mio Padre”).
Senza un motivo apparente mi catapultai verso la track numero 27 -“Perdition-Piano Duet”, contenente il duetto al pianoforte di Paul Newman e Tom Hanks, al culmine della loro simbiosi strumentale; per un attimo mi ero immersa nelle immagini del film che conservavo ancora nella memoria, ritrovando il profondo sguardo di un Newman- “Gangster” che riusciva a trasmettere tutto il suo amore paterno ad un Hanks- “devoto”.
Paul Leonard Newman iniziò la sua carriera nel lontano 1953, con la sua prima interpretazione a Broadway nell’opera teatrale “Picnic” e dopo oltre cinquant’anni di carriera cinematografica e non solo, riesce a concludere in grande stile la sua partita più grande: la vita.
L’attore più amato di Hollywood si è spento lo scorso 26 settembre nella sua casa di Westport in Connecticut, all’età di 83 anni, dopo aver terminato il suo ultimo ciclo di chemioterapia al Weill Cornell Medical Center di New York; di fatti all’attore-regista era stato diagnosticato, non molti mesi fa, un cancro ai polmoni e le sue condizioni nel tempo sono andate irrimediabilmente peggiorando.
Ci lascia così una delle figure più importanti del Cinema Internazionale, che fece suo allievo personale un Robert Redford ancora acerbo, regalandoci accoppiate uniche come “Butch Cassidy” del 1969 e “La stangata” del 1973.
Eppure Newman era molto di più: pilota di linea mancato, amante delle corse automobilistiche, autore, sceneggiatore e regista di pellicole come “La prima volta di Jennifer” e “Lo zoo di vetro”, marito eterno della seconda moglie Joanne Woodward, padre di sei figli tra cui uno perduto per overdose e rammentato nella sua pellicola del 1984 “Harry & Son”, fondatore della “Newman’s Own” un’azienda a scopo benefico ed un convinto sostenitore del Partito Democratico statunitense.
Newman non era solo i bei occhi di Hollywood, intensi e dispersivi come il mare, ma qualcosa che andava oltre lo stesso personaggio cinematografico di puro spettacolo.
Era il cuore e l’anima non solo dell’arte interpretativa di attore, ma della vita stessa, dei suoi risvolti e delle sue prese di coscienza; era semplicemente quella stella luminosa che ci pareva più raggiungibile rispetto ad altre per umanità ed umiltà.
Non amava che quegli occhi azzurri potessero macchiare la sua vera essenza, quello spirito che compiva azioni, un talento che non derivasse da un aspetto estetico ma da qualcosa di prettamente “invisibile”.
“Quando personalità così importanti se ne vanno, ci si dispera e si pensa che, a poco a poco, tutti i grandi ci stanno lasciando”, così ha commentato Sofia Loren in un’intervista al Messaggero, ex collega di Newman nel film “Lady L” del 1965 e, nella sua dichiarazione, possiamo solo comprendere quanto sia amaramente vero.
Il 2008 è stato l’anno delle perdite più significative, tra nuovi talenti che erano in speranzosa via di crescita e di vecchi, veterani e maestri, di un’arte che non s’insegna ma che si possiede fin dalla nascita come diritto divino.
Paul Newman probabilmente era una di quelle figure baciate dall’arte, unico ed indissolubile, idealizzato su un altro tipo di piano che non appartenesse mai completamente allo star system Hollywoodiano.
Contribuiva a rendere il cinema stesso più bello, ancora emozionante ed incredibilmente profondo, regalandoci quelle emozioni della quale solitamente uno spettatore non è mai sazio.
Era il nostro “uomo dei doni” e, a suo modo, continuerà ad esistere nei film che ci ha lasciato come maggiore testimonianza delle sue gesta: “La gatta sul tetto che scotta” (1958), “Lo spaccone” (1961), “Hud il selvaggio” (1963), “Intrigo a Stoccolma” (1963), “Il sipario strappato” (1966), “Il colore dei soldi” (1986) per il quale vinse l’Oscar come Migliore Attore Protagonista, la meritevole pellicola passata in sordina “Per Amore…dei soldi” (1999) e molti altri ancora.
Noi diciamo “Ciao” a Paul, lo salutiamo con affetto nell’attesa di poterlo rivedere sullo schermo di casa nostra, nei classici che comporranno una delle più belle maratone mai affrontate, di un mondo epico ormai alla deriva che possa in qualche modo, nel tempo, non trovare davvero mai la parola fine.