TipiDaSpiaggia- IntoTheWild
[CINEMACITTA]
In queste ore si verifica puntuale l’esodo annuale dalle città verso i luoghi della libertà , dove una volta all’anno ci si può concedere la corroborante esperienza di un’immersione totale “Into the wild”, nelle terre selvagge dei pupotti col secchiello, delle matrone con i thermos, dei bagnini abbrustoliti e tamarri, dei capifamiglia cornuti che si consolano con le lasagne sballottate tra due piatti di plastica avvolti in un sacchetto della spesa chiuso con due mollette. In questo scenario incontaminato, si muovono, spavaldi e tonici e inafferrabili, gli spiriti indomabili, coloro che schizzano tutto e tutti con l’acqua di un mare bollente e sporchetto, proprio perchè devono rendere a tutti manifesto che sono ebbri di vita e di verità e che non si lasceranno contenere da quella tinozza all’aperto che è il Mediterraneo, ma che in pochi minuti lo solcheranno con tavole da surf, pedalò, e perfino motoscooter, per raggiungere le onde del Pacifico, (ma anche dell’Atlantico, tutto sommato), le uniche a misura dell’uomo rousseauiano e ammazzasette che èin loro e che nessuno può estirpargli dalla mentalità .
Membri di una razza eletta, la cui supremazia sui comuni mortali è incontrovertibile, loro travolgono le mille piccole paure borghesi ed arrivano a mangiare il pollo con le mani (!) mentre camminano nudi, come il nudismo li ha fatti, al limitare dello stabilimento della colonia militare; ma possono anche non mangiare affatto, dedicandosi invece alla creazione di treccine usando perline colorate ed i loro capelli color sabbia, che succhiano balsamo come spugne. Questa può essere la sfida da raccogliere per il viaggia-tore alternativo: resistere all’avvelenamento della civiltà pur lasciandosi coinvolgere dal suo più vistoso assestamento stagionale, quello che passa per la migrazione scomposta, sudata e chias-sosa verso le oasi incontaminate dove le file degli ombrelloni arrivano fino al parcheggio!
Nel film di Sean Penn Into the wild, un ventitreenne americano da poco brillantemente laureato, che legge Thoreau e Jack London, intraprende un viaggio solitario alla ricerca della verità , che lo porterà “sulla strada” come nel capolavoro di Kerouac, ma soprattutto ad aprirsi il proprio sentiero là dove non ce ne sono. Una marcia che è performance dell’anima, e che esige l’autoattribuzione di un nome d’arte, Alexander Supertramp, Supervagabondo, proprio perchè delle normali con-venzioni vuole disfarsi in modo radicale: rifiuta la famiglia d’origine, rinuncia anche alla sua vecchia automobile, rifiuta di possedere del denaro, rifiuta l’ipocrisia sociale come norma, e l’inessenziale fatto sentire come irrinunciabile e “naturale†esigenza. Lungo il suo itinerario alla ricerca di un confronto con la Natura, convinto che essa vada amata sicuramente molto di più che non i contatti umani, che comunque creano dipendenza e dolore, Supertramp incontrerà qualcuno, più di uno, che gli offrirà l’occasione di una comprensione reciproca, eppure sempre sceglierà un cortese ma stoico ed in fondo aristocratico distacco, passando attraverso Arizona, New Mexico, South Dakota e su al nord, fino alle imbiancate desolazioni dell’Alaska, dove tundre deserte e cime imponenti appagheranno la sua sete d’assoluto. Il confronto con la Natura infine si rivelerà schiacciante.
Il film a dieci anni di distanza narra la vera storia di Christopher McCandless, un ragazzo nato in una famiglia ricca che nel 1990 invece di andare alla scuola di legge di Harvard decide di liberarsi di tutti i suoi beni materiali e avventurarsi in una prova di sopravvivenza che risulterà punitiva sia per i suoi genitori, prigionieri di una relazione inautentica, ma anche per lui, azzannato dal demone della indipendenza totale ed infine condannato a soccombere proprio per un errore commesso nel procacciarsi il cibo: confonde due tipi simili di patate selvatiche e si intossica con quelle velenose. Nella realtà , pare sia finito sbranato da un orso che riteneva amico, come accadde anche a Timothy Treadwell, protagonista di un’altra pellicola sulla vita selvatica, Grizzly man, esploratore ambientalista che concluse in tragedia le sue avventure tra gli orsi, che film personalmente dal 2000 al 2003. Fu Werner Herzog, in questo caso, regista noto per stabilire idealmente delle gare di folle eroismo con i protagonisti dei suoi film, a fare di queste 100 ore di filmati un prodotto finito selezionandole ed aggiungendovi commento fuori campo ed interviste. Sean Penn invece, con estatica compenetrazione nel pensiero del suo personaggio, scolpisce il film con uno stile impetuoso in aderenza allo spirito di ciò che intende rappresentare, alternando quindi riprese oggettivizzanti e classiche che presentano con asciutta severità il confronto tra uomo e natura, a montaggi veloci e split-screen ed accelerazioni improvvise, che rendono moderna e degna di un epigono beat il collage articolato in piani temporali diversi tra mentale e vissuto che compone tutta la vicenda di McCandless. Che poi la sua parabola si concluda con la sofferta accettazione, contraria alle sue precedenti convinzioni, che la vera felicità deve essere condivisa, alimenta l’impressione che il dogma dell'”alternative way of life” portato all’estremo dal viaggiatore eremita, rappresenti tutto sommato una scelta fondamentalistica radicata soprattutto nella nevrosi causatagli dal background familiare “ sorella esclusa“ e che lo porta a superare la linea di confine tra umano e animale, tra esigenza umana di palingenesi naturalistica e abbrutimento narcisistico.
Non è dunque questa la vera interpretazione delle vacanze intelligenti, il ritorno alla natura contro la barbarie della civiltà si persegue caricando 25 fotomodelle sullo yacht e facendo dalla prua il gesto dell’ombrello ai vu cumprò , anche se dalla riva ci fanno sentire un po’ imbecilli facendoci notare con poco tatto che in realtà lo yacht è un canotto poco gonfio e che inquina ancora meno, mentre le 25 top model sono 6 amici, arrapatissimi vitelloni col costume scosciato e la brillantina, impegnati a gridare parolacce e a tirar dentro la pancia.
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