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In Bruges. La coscienza dell’assassino, Regia di Martin McDonagh

Immaginatevi una piccola cittadina europea, immersa nella neve, tra gite in canale e casette da sogno. Una piccola roccaforte medioevale, una fiaba per così dire, che porta con sé il nome di Bruges.
Eppure, alle volte, una così bella facciata può nascondere i suoi lati oscuri ed è fin troppo facile confondere l’inferno per il paradiso con, In Bruges- La coscienza dell’assassino, Martin McDonagh firma il suo primo lungometraggio, dopo essere stato premiato nel 2006 con l’Oscar per il miglior cortometraggio, intitolato “Six Shooter“.

La pellicola narra la storia di Ray (Colin Farrell), un killer professionista che al suo primo incarico, erroneamente, toglie la vita ad un giovane ragazzo.
A seguito dell’atto, il boss Harry (Ralph Finnes), manda Ray e il suo collega Ken (Brendan Gleeson) in esilio a Bruges, una piccola cittadina del Belgio, dando ordini di attendere lì finché le acque non si saranno calmate del tutto.
Ma la tranquillità durerà poco e Ray stesso scoprirà che Harry ha ben altri piani in riserbo per lui.

Martin McDonagh, oltre alla regia, pone il suo ingegno in una sceneggiatura senza falle, che non precipita quasi mai in situazioni banali e scontate.
Si serve di un trio perfetto di attori (Farrell-Gleeson-Finnes), che riescono a gestire con naturalezza il percorso narrativo, divenendo l’uno la spalla dell’altro, trasmettendo a noi spettatori la contraddittorietà dei loro personaggi, costantemente in bilico tra razionalità e pazzia.
Le due personalità di Ray e Ken si sposano perfettamente nelle loro evidenti diversità: il primo come un capriccioso bambino che dissimula il suo senso di colpa e il secondo come il perfetto ritratto di un uomo razionale e pacato, che pare avere trovato il suo paradiso. Harry come il simbolo del “nonsense “, verificabile nella follia, di un uomo spietato che tuttavia conserva un codice puramente morale.

L’azione narrativa si presenta perfettamente scorrevole, carica di battute taglienti e beffarde, con una sorta di continuità che non lascia spazio al caso.
Lo scenario, dall’aria europea, è intriso di un’avvolgente malinconia, rendendo così Bruges l’ultima spiaggia per le anime in pena, pronte a trovare sollievo nella morte.
Un mondo fiabesco che fa quasi timore, paragonabile ad una classica storia dei Fratelli Grimm e, di fondo, decisamente più inquietante che sognante.
La piccola città Belga, così, si differenzia di significato a seconda dell’individuo, riuscendo in tal modo a sollevarsi come primaria ed assoluta protagonista.
Bruges diventa così la città natia, l’involucro dei ricordi d’infanzia, il noiosissimo purgatorio per eccellenza e il paradiso mai sperato, che tutti vorrebbero visitare prima di morire.
Ma è proprio alla fine che la città diventa l’inferno più spietato: l’eterno soggiorno per chi crede che, per amare Bruges, bisogni “crescere in campagna ed essere ritardati”.
Un film destinato a rinchiudersi nello stretto scaffale dei Cult con un’impronta noir passati in sordina, che ci dà la visione chiara di una lontana dimensione pittoresca, con tanto di nani, prostitute e serial killer muniti di un cuore che batte.

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